Il settimanale Famiglia cristiana ha recentemente riproposto ai suoi lettori il romanzo Un altare per la madre di Ferdinando Camon, con il quale lo scrittore padovano vinse il Premio Strega nel 1978. Il libro conclude la trilogia del “ciclo degli ultimi”, inaugurata con Il quinto stato del 1970 e proseguita con La vita eterna del 1972. Un altare per la madre è oggi forse più conosciuto all’estero che nel nostro Paese: è stato tradotto in tutte le principali lingue del mondo; lo scrittore americano Carver lo definì “un’opera d’arte sublime”. Meritoria, dunque, l’iniziativa del settimanale dei Paolini, se contribuisce a far conoscere ai nostri sprovveduti connazionali i classici del Novecento italiano (e il romanzo di Camon lo è a tutti gli effetti).



Non sorprende che il libro sia meno noto di quanto meriti, presentandosi come un omaggio, epico ed elegiaco, alla civiltà contadina, oggi negletta, attraverso la rievocazione della figura della madre. La fine della civiltà contadina, secondo Péguy “il più importante avvenimento della storia dopo la nascita di Cristo”, ha in Camon un testimone d’eccezione. Egli, nato nel 1935, visse nella sperduta campagna padovana fino alla fine degli anni 50, quando essa sparì, di colpo e per sempre, travolta dalla civiltà della tecnologia e del benessere. Ricorda Camon in un’intervista a Gabriella Imperatori in Profondo Nord: “Credo di aver traversato una delle fasi di penuria più intollerabili che l’umanità abbia mai conosciuto. Mancava sostanzialmente tutto (…): ho avuto la luce elettrica quando facevo il ginnasio, ho abitato per tutte le elementari in una casa che aveva per pavimento la nuda terra, sotto i nostri piedi sentivamo correre nelle loro gallerie i topi e animali sconosciuti”. 



Quella civiltà, che ha segnato secoli di vita italiana e milioni di persone, è oggi dimenticata, rimossa dai vecchi che l’hanno vissuta, mentre i giovani la ignorano del tutto. Probabilmente, la storia mesopotamica è più conosciuta, se non altro perché è oggetto dei programmi scolastici. Provocatoriamente, nell’intervista citata di Profondo Nord, Camon afferma di avere “più parentele culturali e comportamentali con i Bororo che non coi contadini veneti di oggi”. 

Come è noto, fu Pasolini a scoprire e a lanciare Camon, scrivendo la prefazione a Il quinto stato, che l’autore definì “bellissima e sbagliata”. L’intellettuale “corsaro” aveva “infatti “un’idea arcadica della civiltà contadina perché non la conosceva”, tanto che arrivò a dire che avrebbe dato la Montedison per il ritorno delle lucciole; ma, afferma lo scrittore veneto, “il vero contadino non vorrà mai tornare indietro perché allora si stava male, malissimo, da crepare”. 



Del Veneto descritto nel “ciclo degli ultimi” non rimane più nulla, nemmeno la memoria. Era fatto di terra, acqua, buoi, stalle, dialetto: un mondo fuori della storia, che sembrava immutabile, dotato di un proprio ordine e di un’interna giustizia fino a che non ha fatto irruzione l’altro, con la sua violenza consumistica, che lo ha travolto. “E’ come se da molte generazioni si vivesse tra uomini, animali, terra; mancavano le cose. Adesso è tutto il contrario: uomini e animali sono diventati cose, la terra è sepolta sotto”, leggiamo nell’Altare. Secondo il Pasolini di Scritti corsari, non si è trattato di un cambiamento d’epoca, ma di una tragedia. In questo senso, sembra di risentire l’eco delle parole recenti di Papa Francesco: non viviamo in un’epoca di cambiamenti, ma in un cambiamento d’epoca. Questo genera disorientamento e inquietudine, specialmente in chi ha vissuto quegli anni: sono crollati dei valori che sembravano evidenti e indiscutibili fino a pochi decenni fa. 

Ma parlando solo di trasformazioni della società italiana si rischia di fare un torto al romanzo. Come accade ai capolavori, esso si nutre del terreno che lo ha fatto germogliare, ma poi vive di una vita propria, originale ed irripetibile. Si presenta come un rito di salvezza per la madre, contadina poverissima, umile, forte e coraggiosa. Figura ieratica e nello stesso tempo dolce, nella memoria del figlio vive nei suoi gesti e nelle sue azioni, non nelle parole, perché il suo mondo ne possiede pochissime. Durante la seconda guerra mondiale, le accadde di salvare uno straniero dallo rastrellamento dei nazisti. Un giorno lo straniero ritorna e racconta la vicenda al padre dello scrittore. Il vecchio decide di innalzare un monumento per la moglie, al cui interno verrà ospitato un altare, destinato a diventare l’altare della chiesa del paese; sarà così utile a tutti, come una memoria collettiva. Anche il libro è un altare, fatto di parole, scritte, afferma l’autore che si è lasciato alle spalle quegli avvenimenti, “secondo l’amore, la cultura e la pietà che sono propri del mondo, nel quale sono emigrato”. 

Di questo libro straordinario, tratteniamo qualche scena, capace di evocare, nel modo riservato e discreto proprio della civiltà contadina, la figura della donna. Un giorno, mentre mangiava poveramente polenta e zucchero, arriva in casa un mendicante, al quale offre lo stesso cibo, sorridendo. Ma questi lo rifiuta, e getta in terra il cartoccio offerto; la donna si china per raccoglierlo e, prima che si sporchi, lo mangia. Per un contadino, lo spreco è intollerabile, per questo si china a raccogliere anche le briciole. “Aveva un animo sensibile, le piacevano le cose strane, le scoperte, le parole in italiano che riusciva a capire, le sorprese”. Ancora un episodio si impone alla memoria. La madre, quando il padre era soldato, riempie il vuoto in famiglia, radunando i figli attorno al focolare. Era l’antica pratica del filò, in cui i contadini vegliavano nelle stalle per raccontare storie popolari e soprattutto di santi. “Aveva un modo rozzo, popolaresco, ma potente, di inventare e di raccontare. Si aiutava con la mano destra, con dei gesti ieratici come quelli del prete quando spiega il vangelo. Quello probabilmente era il suo modello. Cominciava andando alla ricerca dell’argomento, e si capiva benissimo che non sapeva nemmeno lei di che cosa avrebbe parlato. Diceva per esempio: ‘Stassera’, e alzava la mano destra con l’indice teso, poi l’abbassava”, e iniziava a raccontare le vite dei santi. “C’era qualcosa di mistico e di tragico nel suo attaccamento al lavoro, protratto fino a un attimo prima di perdere le ultime forze e di cadere per terra”. Poi, lentamente, le accadeva di recuperare le forze e allora sorrideva. “Mai nessuno sorriderà così”, chiosa il figlio scrittore. 

Quel mondo, quelle campagne erano pervasi dal senso del sacro; il cristianesimo si fondeva con credenze arcaiche, di discendenza pagana. “Il sacro si toccava col dito, non era metafisico, e questa vicinanza era forse ciò che più caratterizzava la vita nelle campagne di allora. Adesso questo sentimento è svanito, e questo è una perdita, l’uomo che non sa cos’è il sacro manca di qualcosa di essenziale”, afferma ancora Camon in Profondo Nord. In un’intervista del 2015, lo scrittore sarà ancora più esplicito. Riferendosi alla nascita di Cristo, afferma: “la cultura e la storia dell’Occidente hanno girato su questo concetto, pro e contro. Non è un principio filosofico o culturale, è un evento. Il cristianesimo è fondato su questo evento, e credere vuol dire credere in questo evento. Per restare in Italia, quell’evento e la fede che ne deriva, e la religione che ne è nata, ha riempito la letteratura che si studia a scuola, da Dante a Luzi. Un ragazzo che viene da qui non può capire niente di quella letteratura se non sa quell’evento”. 

Il lavoro del padre, che costruisce un altare di rame per la moglie, e quello del figlio, che gliene consacra uno di parole, è garantito da questo senso del sacro, di immortalità, di continuità con le persone che ci precedono. Fino a quel momento il padre aveva fatto “cose destinate all’oblio. Adesso faceva un altare. Non c’era possibilità di confronto fra quello che faceva adesso e quello che aveva fatto finora. Non che avesse fatto cose ingiuste. Ma erano cose inconsistenti sul piano della verità”. Si possono fare “cose belle, intelligenti, grandiose. Non vere, che è molto di più”. Grazie all’altare, tutti l’avrebbero ricordata per sempre. Tutto acquista un senso, ogni vita, ogni frammento. “Cristo c’è, ed è ineguagliabile. Se non ci fosse Lui, vivere sarebbe un’insulsa pazzia”.