La complessa serie di eventi iniziata la notte del 24 ottobre 1917, che chiamiamo “rotta di Caporetto”, ancora a distanza di un secolo registra discrepanze interpretative tra storici e appassionati. Fu merito degli austrotedeschi o demerito degli italiani?

Se fu merito dei primi, cosa contò di più? Le nuove armi impiegate? Le nuove tattiche di bombardamento, o di impiego di reparti d’assalto? O ancora l’impiego di carte topografiche di nuova generazione, dettagliatissime?



E se invece fu demerito degli italiani, su chi ricade la colpa? Aveva ragione Cadorna, si trattò di reparti che “vilmente” si ritirarono o “ignominiosamente” si arresero? O la responsabilità va cercata nei comandi stessi, incapaci di comunicare tra di loro, restii a credere nell’eventualità di una grande offensiva “fuori stagione”?



Questa mancanza di una verità chiara e condivisa sembra ancora oggi denotare, almeno nella coscienza storica italiana, una difficoltà nel gestire il portato emotivo del “disastro” per antonomasia.

Ciò che invece da lì in poi si muove, fino al 4 novembre 1918, sembra illuminato da una luce più uniforme, che dona agli eventi prospettive ovviamente ancora complesse da manipolare, ma in qualche modo più solide, più affidabili.

E quindi da Caporetto si muove il riscatto dell’esercito italiano; non solo, da lì si muove il riscatto degli italiani stessi, che fino a quel momento, nello stillicidio delle spallate sanguinose sull’Isonzo, parevano aver tollerato la guerra, e che invece adesso, schierati sull’ultima trincea utile prima della grande pianura, prima di Treviso, Padova, Venezia e Vicenza, si riscoprono uniti, si riscoprono nazione nella necessità della difesa dall’invasore, arrivato alle porte e più che mai incombente sulla patria.



Da lì si muove il mito dei ragazzi del ’99, i giovanissimi chiamati all’estremo sacrificio, quasi a purificare nel sangue le colpe e gli errori degli altri, quelli di prima, che non erano stati capaci di arrivare alla vittoria e che anzi si erano sbandati, dandosi alla macchia o cadendo prigionieri.

Siamo nel campo della pura retorica, stiamo rievocando miti polverosi di sabauda memoria? Non credo: più di qualche volta ho sentito, in occasione dei frequenti “recuperi all’ultimo minuto” della nazionale calcistica, qualche cronista rievocare l’abitudine italiana a tirare fuori il valore proprio quando suona l’ultima campana, quando o la va o la spacca. Ancora il mito di Caporetto sembra fare capolino dietro alle qualificazioni ai mondiali…

E ancora: tante e tante volte ho sentito bande e cori intonare i canti del “dopo Caporetto”, da “Monte Grappa tu sei la mia patria” alla ben più celebre “Leggenda del Piave”, fino a non troppi anni fa insegnata a memoria nelle elementari di tutta la penisola.

Il Grappa, nelle note della canzone, è un “cotal baluardo affidato agli italici cor”, le sue cime furono “sempre vietate per il piè dell’odiato straniero”. E ovviamente tutti sanno che il Piave, più e prima di ogni altra cosa, mormora: “Non passa lo straniero”! Interessante osservare che i due testi musicali probabilmente più rappresentativi della Grande Guerra presuppongano, come scenario di riferimento, quello post-Caporetto, quasi che la guerra precedente perda consistenza e rilievo di fronte al mito del riscatto e della vendetta dopo il rischio della sconfitta.

C’è poco da fare: l’Italia da sempre ha una gran fame di miti collettivi. Vista la sua recentissima e non facile storia nazionale, fu da subito necessario fare tesoro di simboli laici e nazionali attorno ai quali riconoscersi. Da qui Garibaldi e Mazzini. Da qui, dopo il fascismo, la consacrazione formale della Resistenza come nuovo crogiuolo nel quale gli italiani sembrano rinascere a nuovi valori. La Resistenza in qualche modo fu il salvifico contraltare, repubblicano e democratico, a una guerra, la seconda, difficile da ricordare perché nata in un’Italia fascista e monarchica, e difficile da gestire per il suo esito negativo.

Ecco quindi che “l’altra guerra”, e in particolare il meccanismo catartico di Caporetto, che fa sfiorare la tragedia per poi abbracciare la vittoria luminosa, non è facile da archiviare, e continua a costituire un nodo retorico, affettivo e perché no, ideologico, che evidentemente rende la memoria e l’analisi storica difficile e scivolosa.

Eppure proprio in occasione del Centenario avremmo più che mai bisogno di evitare la retorica per abbracciare l’analisi storica, per ridare giustizia e oggettività a Caporetto, e da lì all’intero conflitto.

Come si fa? Come scrostare la retorica quando ne siamo fisicamente circondati e culturalmente intrisi? Se ogni città d’Italia ha la sua brava Via Monte Grappa, il suo Largo Cadorna, il suo monumento ai caduti che, cogliendo l’occasione della doverosa memoria per i morti, lancia il suo monito, 9 volte su 10 cronologicamente fascista, sulla bellezza della morte per la patria, sull’onore eterno, sulla gloria imperitura? Come si fa se, come il Peppone di Guareschi, all’udire la Canzone del Piave mandiamo a ramengo le nostre convinzioni e i nostri ideali, e ripartiamo da lì, da Caporetto e dall’invasore?

C’è chi non esita ad affermare che la strada da percorrere sia quella di una sostanziale censura storica. Togliere i Cadorna dalle vie, non insegnare canzoni che parlano di sangue, nemici e sacri confini. Non credo che sia la strada migliore, non pedagogicamente almeno. Eliminare una memoria, per quanto questa memoria sia scomoda o deformata, è sempre rischioso. Si sostituisce un pieno con un vuoto, mai facile da riempire, e poi i nostri studenti sono già circondati da troppi vuoti.

Personalmente sono molto contento quando, camminando in montagna, mi imbatto in qualche contrada sperduta che mostra su qualche muro una scritta del ventennio fascista, sbiadita e difficilmente leggibile. “Molti nemici molto onore”. “Oggi balilla, domani legionari”. Sono contento perché trovo quelle scritte “utili”, anzi, “educative”. Perché parlano della nostra storia. Perché mostrano cos’era quell’Italia. E quindi mi possono servire in tanti modi, ad esempio per comprendere quale fosse la retorica usata, e meditare sul peso pericoloso della propaganda, o per dare più valore ai principi di democrazia, pace e uguaglianza su cui oggi si regge l’Italia. Sono in qualche modo come armi in un museo, non più pericolose perché, almeno in teoria, disinnescate da anticorpi ormai consolidati nel nostro paese, ma ancora utili per capire la realtà.

Lo stesso dicasi della retorica della Grande Guerra. Se la eliminiamo prendiamo atto della nostra vulnerabilità nei confronti dei suoi dis-valori, e al contempo condanniamo le future generazioni a un pericoloso oblio. Piuttosto che censurarle, preferirei disinnescarle, affiancandole a un’altra retorica, ad altri miti nazionali, nuovi, inediti e senz’altro difficili da costruire, al punto che per alcuni questi obiettivi sono utopici.

Iniziamo a dedicare le strade e i monumenti, oltre che a Cadorna e a Diaz, al milione di profughi civili causati da Caporetto. Ai soldati fucilati ingiustamente. Ai disubbidienti alla follia di un ordine. Ai matti di guerra. Ai prigionieri austriaci morti nei nostri campi. Costruiamo, attorno a Caporetto, una memoria davvero completa e davvero condivisa. Anche con le canzoni: continuiamo pure a insegnare “La leggenda del Piave”, ma iniziamo a insegnare una tra le tante canzoni censurate e dimenticate, per esempio “Gorizia tu sei maledetta”. Ancora nel 1964 al Festival dei due mondi di Spoleto pare che i cantanti che la intonarono siano stati denunciati per vilipendio delle forze armate… Forse adesso i tempi sono maturi per un paese che, almeno sulla Grande Guerra, proceda senza timori in una memoria senza censure?

La mattina del cinque di agosto,
Si muovevano le truppe italiane
Per Gorizia, le terre lontane.
E dolente ognun si parti.
Sotto l’acqua che cadeva al rovescio,
Grandinavano le palle nemiche;
Su quei monti, colline e gran valli,
Si moriva dicendo così:
O Gorizia, tu sei maledetta,
Per ogni cuore che sente coscienza;
Dolorosa ci fu la partenza
E il ritorno per molti non fu.
O vigliacchi che voi ve ne state,
Con le mogli sui letti di lana,
Schernitori di noi carne umana,
Questa guerra ci insegna a punir.
Voi chiamate il campo d’onore,
Questa terra di là dei confini
Qui si muore gridando “Assassini!”
Maledetti sarete un di.
Cara moglie, che tu non mi senti
Raccomando ai compagni vicini
Di tenermi da conto i bambini,
Che io muoio col suo nome nel cuor.
O Gorizia, tu sei maledetta,
Per ogni cuore che sente coscienza;
Dolorosa ci fu la partenza
E il ritorno per tutti non fu.

(Paolo Malaguti è autore del romanzo “Prima dell’alba”, Neri Pozza, 2017)