È morto all’alba di ieri, nella sua casa di Cassacco (Udine), il poeta friulano Pierluigi Cappello. Esordì nel 1994 con la raccolta Le nebbie. Nel 2004 vinse il Premio Montale con Dittico, raccolta di poesie in italiano e in friulano, e nel 2010 il Premio Viareggio per la poesia, con la raccolta Mandate a dire all’imperatore, forse la sua più significativa. Nel 2014, viste le condizioni di vita — viveva su una sedia a rotelle dall’età di 15 anni, in seguito ad un grave incidente stradale — e anche grazie alla mobilitazione di tantissimi friulani, gli era stato riconosciuto il vitalizio per artisti e intellettuali previsto dalla legge Bacchelli.
“L’imperatore, dicono, ha mandato a te, a te singolarmente, miserabile suddito, piccola ombra fuggita davanti al sole imperiale nella lontananza più remota, proprio a te l’imperatore, dal suo letto di morte, ha mandato un messaggio”. Dall’alto al basso, l’imperatore che scrive al suddito, così come lo immagina e lo descrive, in un famoso racconto, Franz Kafka. L’imperatore che, sul punto di morire, pochi istanti prima, scrive al miserabile suddito, che però non riceverà mai il messaggio. Il messaggero dell’imperatore infatti si perde nei labirinti del palazzo, nelle stanze senza via d’uscita, non riuscendo a portare a termine la missione affidatagli.
Nella sua raccolta Mandate a dire all’imperatore (Crocetti), invece, Cappello cambia la prospettiva. Non più l’imperatore che scrive al suddito, ma l’uomo che, faticosamente, tenta di avvicinarsi all’autorità, al potere misterioso, camminando dentro al “buio della parola”, perché il messaggio, dal basso all’alto, possa giungere, perché l’imperatore si accorga che i pozzi si sono seccati e che la terra è arsa: Così come oggi tanti anni fa/ mandate a dire all’imperatore/ che tutti i pozzi si sono seccati/ e brilla il sasso lasciato dall’acqua/ orientate le vostre prore dentro l’arsura/ perché qui c’è da camminare nel buio della parola.
Ma l’imperatore è distante e quasi inavvicinabile, alto sul faro che all’uomo non è concesso di guardare, chiuso, forse, nelle stanze di un palazzo senza luogo. Eppure il suddito, nel viaggio, non è solo, e la salita porta con sé il sapore e il gusto dei tanti incontri, dei nomi che nella poesia vengono convocati: Meno solo mi pare di andare, premendo un piede/ dopo l’altro, secondo la formula del luogo,/ dal basso all’alto, seguendo una salita.
Come un padre che altro non aspetta se non la voce del figlio, il suo racconto dei temporali, il suo volto che guarda là, lontano, alla ricchezza delle stagioni: Ieri sono passato a trovarti, papà,/ la luce in questi giorni non è tagliata dall’ombra/ negli alberi senza vento c’è l’odore secco dell’aria/ per come posso, ti ho portato il racconto dei temporali, l’odore di inverno sulle tempie.
È per la ricchezza del mondo che la salita, in apparenza vuota, abitata da una solitudine senza riscatto, rivolta a un destinatario troppo distante e non curante di quel viaggio nel “buio della parola”, assume un significato diverso, che il sentiero può diventare uno sguardo pieno di stupore e di meraviglia per le cose, un oceano che trattiene dentro di sé le correnti della vita: La bocca è un’alba schiusa/ la meraviglia è nelle cose guardate/ giri una corolla tra l’indice e il pollice,/ l’imprecisione del gesto lascia splendore.
Bisogna restare, per Pierluigi Cappello, dentro la parola che non dà le spalle, che non rinuncia ad accogliere lo splendore del mondo. Restare, per poi portare all’imperatore la grandezza e la vastità del viaggio: Tengo per me cos’è curare il fuoco/ l’odore spesso di legna bagnata, lo stoppino fra le dita/ lo stare di tutti i giorni nelle cose da fare, dentro un’altra luce/ rotta dalle nuvole, un diverso tramontare allacciato agli alberi alti/ pieno negli occhi delle case, sulle bestie dei poveri;/ un po’ qua un po’ là/ si sta soli così, oggi, un giorno così, un giorno più soli.
Nel poemetto conclusivo, “La strada della sete”, di complicata interpretazione, in cui salita ed eterno sembrano coincidere, ci sono dei versi in cui, col cielo sotto i piedi, il figlio sceglie di abbeverarsi alla fontana, come per un battesimo: Chinai la testa sotto la fontana/ come per un battesimo, l’acqua si infilò nel nero dei capelli/ ne sentii le dita fresche passare fra le scapole, correre il mio corpo/ riempire il campo arso che ero stato. Come se io fossi/ un’infanzia: lei mi apparve così, e sembrava lì, da sempre.
Ecco che avviene il battesimo finale, l’entrata — e l’arrivo — dentro quella luce alta che durante tutta la vita non ha chiesto altro che di essere seguita, raccolta nella parola che si inchina, fino alla fine, fino alla sua infanzia. Anche quando il messaggio, come nel racconto di Kafka, sembra non arrivare, e non si sa se l’imperatore ne segue l’avvicinamento.