“Nella Catalogna secolarizzata — spiega il filosofo Massimo Borghesi a Páginas Digital, da cui riprendiamo questa intervista — il nazionalismo riempie il vuoto lasciato dalla religione perduta. Non si comprende la mistica della rivolta catalana se non a partire dal fatto che finalmente i catalani hanno trovato una nuova fede, un mito unificante, una passione civile, un nemico da combattere. Ma la mistica non tiene conto delle controindicazioni”.



Viviamo in un’epoca di caduta delle evidenze, anche di quelle che sono state a fondamento della democrazia. Lo vediamo nella crescita dei populismi. Il movimento indipendentista in Catalogna potrebbe esserne un esempio?

Il movimento di indipendenza catalano ha origini antiche. Le premesse sono all’inizio dell’era moderna quando, con la scoperta europea delle Americhe, la Catalogna si trovò a soffrire le difficoltà economiche dovute allo spostarsi dei commerci verso le Americhe, dalle cui rotte la Catalogna era stata esclusa in favore della Castiglia, e il chiudersi degli spazi di manovra mercantili nel bacino mediterraneo, a causa dell’espansione ottomana. E’ in questo contesto che maturano i sentimenti anti-castigliani e separatisti che spinsero alla scelta politica di appoggiare la Francia contro Filippo IV di Spagna. Se queste sono le premesse lontane va detto che il fenomeno dell’indipendentismo si è radicalizzato nel corso degli ultimi 10 anni, in parallelo all’esplodere della crisi economica interna della Spagna ed internazionale. La crisi economica funziona da detonatore per rivalità antiche. Il populismo catalano è diverso da quello italiano, tedesco, austriaco, inglese. Non ha nulla a che fare con i fenomeni dell’immigrazione, della presenza musulmana, ecc. Il populismo catalano è un populismo nazionale o, meglio, nazionalistico. Presenta analogie con quello basco e scozzese. Gli indipendentisti chiedono di essere considerati come una vera e propria nazione. Per questo, nel marzo del 2006, è stata adottata una nuova versione dello “Statuto catalano”, con l’approvazione dell’allora premier José Luis Rodriguez Zapatero, in cui si rafforzava la Comunità autonoma. Nel testo si definiva la Catalogna come “una nazione” all’interno dello Stato spagnolo e si stabiliva inoltre “il diritto e il dovere” dei cittadini catalani di conoscere e parlare il catalano e il castigliano. Ma nel luglio dello stesso anno, il Partito Popolare di Mariano Rajoy, all’epoca all’opposizione, aveva presentato un ricorso davanti alla Corte Costituzionale che, quattro anni dopo, nel giugno del 2010, aveva annullato una parte dello statuto catalano, cioè quella che stabiliva il riferimento alla Catalogna come “nazione”, perché non aveva “nessun valore giuridico”. La motivazione per l’annullamento di una parte dello statuto sta nel fatto che la Costituzione post-franchista del 1978, che trasformò il Paese in una monarchia parlamentare, “non riconosce altro che la nazione spagnola” ed è stata pensata per una Spagna “indissolubile”. I principi sanciti costituzionalmente sono quindi superiori a qualsiasi decisione presa da un parlamento autonomo.



All’origine dell’indipendentismo catalano c’è senza dubbio l’opera del vescovo Torras i Bages che alla fine del XIX secolo vedeva nello sviluppo dell’identità regionale o nazionale della Catalogna un modo di contrastare la secolarizzazione. Questo tentativo è evidente nella sua famosa frase “la Catalogna sarà cristiana o non sarà”. Nella storia ci sono state altre operazioni simili. Che conseguenze ha un’opzione di questo tipo?

Nel corso dell’800, in Europa, molti movimenti di indipendenza nazionale sorgono a partire da una base religiosa, segnatamente cristiana. E’ il caso dell’indipendenza della Grecia dal dominio ottomano, della Polonia, dell’Italia all’inizio del movimento risorgimentale. L’idea della nazione “cristiana” è uno dei prodotti della cultura romantica in reazione all’illuminismo secolarizzante. Tornando al presente ciò che mi colpisce è il silenzio della Chiesa, almeno nei media, rispetto a quello che viene accadendo. Comunque lo si voglia giudicare il movimento di secessione dalla Spagna perseguito dagli indipendentisti catalani radicali è una tragedia. Ogni volta che i popoli si dividono è una sconfitta. In questo caso mi pare di poter dire che è una tragedia anche per la Chiesa, per quella catalana e per tutta la Chiesa spagnola. La Chiesa, in questi anni, non è stata capace di unire, di superare odi e rivalità. La sua voce negli avvenimenti presenti non si è sentita. Vero è che nella Catalogna, profondamente secolarizzata, la sua voce è molto debole. Allo stesso modo è mancata, mi sembra, la funzione di unità rappresentata dalla corona, dal re. Il re doveva, deve rappresentare l’unità della nazione, il simbolo in cui si riconoscono tutti al di là delle differenze. Non mi pare che questo sia accaduto.



Il fenomeno del nazionalismo, che si trasforma in indipendentismo, è stato spiegato come un “trasferimento di sacralità”. Già Origene criticava l’idolatria della nazione. La Catalogna è di fatto una delle zone più secolarizzate della Spagna. Questo trasferimento della sacralità è la conseguenza normale di ogni teologia politica?

Il papa Francesco afferma, nei suoi scritti, che per comprendere un popolo occorre una visione logica ed una mitica. Senza la dimensione mitica, che concerne i legami storici, le tradizioni, i simboli, i costumi ecc. non si capisce un popolo. Quando questa dimensione mitica diviene “mistica” si cade nell’ideologia, nella religione civile, nella teologia politica. Il catalanismo da movimento identitario diviene un moto totalizzante, unificante, religioso. Diviene un movimento di liberazione. La domanda che dobbiamo porci è: “liberazione da cosa”? Forse che la Spagna è uno Stato tirannico, illiberale, antidemocratico, oppressivo? La Catalogna è una delle regioni europee più ricche, con un livello di autonomia ai limiti dell’indipendenza. Cos’altro le manca per essere se stessa? Nulla se non la mitologia di se stessa. Nella Catalogna secolarizzata il nazionalismo riempie il vuoto lasciato dalla religione perduta. Non si comprende la mistica della rivolta catalana se non a partire dal fatto che finalmente i catalani hanno trovato una nuova fede, un mito unificante, una passione civile, un nemico da combattere. La mistica non tiene conto delle controindicazioni. Una Catalogna indipendente non avrebbe il riconoscimento europeo, dovrebbe coniare una moneta propria con le conseguenze valutarie che possiamo immaginare, vedrebbe la fuga di industrie e di banche, il peggioramento dei conti economici, il probabile aumento della disoccupazione, il congelamento dei rapporti con la Spagna, l’insignificanza politica nel mondo globale, ecc. I motivi negativi sono evidenti. E, tuttavia, per i radicali non esistono. Hanno una “fede” e questo basta. 

Il nazionalismo che risorge in Europa con queste caratteristiche si può intendere come una forma di teologia politica? Come fare una critica della teologia politica a queste nuove teologie politiche?

Il nazionalismo risorge in Europa a seguito del movimento livellatore imposto dalle burocrazie di Bruxelles. Quanto più l’Europa vuole “unificare” tanto più scattano le differenze. L’Europa non può né deve essere una nazione. Se lo facesse diverrebbe totalitaria. L’Europa può reggere solo se mantiene l’equilibrio tra unità e differenza, tra universalizzazione e localizzazione, tra organismi centrali e Stati nazionali. Diversamente risorgeranno, stanno risorgendo, le reazioni populistiche. Queste affondano il loro consenso nella paura e, al contempo, in desideri non soddisfatti. La paura è quella dell’immigrazione, della presenza musulmana, della perdita di identità, della crisi economica. A fronte a queste paure l’Europa non appare una difesa. Non solo. L’Europa appare lontana anche di fronte al fenomeno della solitudine, del mondo senza legami prodotto da un neocapitalismo aggressivo, da una società liquida fondata sull’individualismo estremo. Donde il desiderio di far parte di una patria, di una comunità. Il desiderio di appartenere. I nazionalismi identitari che fioriscono oggi utilizzano, strumentalizzano paure e desideri che maturano nella crisi della globalizzazione e immaginano soluzioni mitico-mistiche. Le teologie politiche sorgono sempre in situazioni di “crisi”. Il loro fascino sta nello scaricare in un nemico le frustrazioni e le paure. Per la Catalogna di oggi avere nella Spagna un nemico, il capro espiatorio dei propri problemi, costituisce, nell’immaginario collettivo, una promessa esaltante di liberazione. 

In una intervista a questo giornale lei affermava che identità significa autocoscienza di quello che uno ha incontrato. Per un cristiano questo deriva dall’esperienza della Grazia, di qualcosa che è accaduto e non dipende da noi, non è merito nostro. Diversamente, l’identità si trasforma in una costruzione ideologica che finisce nella dialettica amico-nemico”. Siamo condannati a identità conflittuali?

Quando la conflittualità tra i popoli diviene ideologica, manichea, occorrerebbero grandi leader capaci di delineare strade, percorsi di riconciliazione. Al contrario vediamo politici di basso profilo che utilizzano le passioni delle masse per costruire le proprie carriere. Senza scrupoli. Nei momenti difficili siamo in mano ai mediocri. Comunque quando il conflitto appare senza via d’uscita la Chiesa, se costituisce la tradizione storica della nazione, non può non adoperarsi per l’unità tra i popoli cristiani che costituiscono uno Stato. L’unità, come afferma sempre papa Francesco, è più forte della differenza. L’unità non deve abolire la differenza e quest’ultima non deve distruggere la concordia. In caso contrario l’identità da fattore di ricchezza per tutti, da fattore originale si trasforma nell’ideologia identitaria. L’identitarismo nazionale è una costruzione intellettuale degli storici, un prodotto dello storicismo romantico. Segna la fine dell’Europa “cristiana” della “Santa Alleanza”; è la premessa delle due guerre mondiali che, in nome della potenza delle nazioni, ha incendiato la terra. Il fatto che oggi esso appaia in Europa, diversamente dalla ex-Jugoslavia,  come un movimento pacifico non toglie la sua anima conflittuale, il suo bisogno dell’eterno nemico. Da qui non può sorgere nulla di buono.

(Juan Carlos Hernández e Fernando De Haro)