In un libro di saggi pubblicato all’inizio degli anni Novanta, Le sabbie immobili, Giuseppe Pontiggia, con la sua tipica ironia dei contrasti, dipingeva non solo una satira della società italiana di quegli anni, ma i meccanismi linguistici con cui l’uomo di ogni tempo cerca di eludere le evidenze dell’esperienza. Pontiggia, da scrittore e “filologo mancato” quale si descriveva, legge negli usi irresponsabili del linguaggio i segni di una decadenza non solo morale, ma di impegno con la ricerca del senso della vita. Ad esempio, riguardo un caso degli anni 90 che rendeva di dominio pubblico l’esistenza di un Club dell’eutanasia, rifletteva su ciò di cui le parole sono segno, evidenziando ironicamente il paradosso di chiamare “animatore” l’esperto di dolce morte, oppure notando come il lessico utilizzato per parlare della vicenda, “tra imprenditoriale e macabro”, apparisse inadeguato al tema, grave, della morte: “‘club’, ‘rapporto finanziario’, ‘consulenza’ sottraggono alla morte il suo significato, di essere il fondamento ultimo di ogni scelta; e la riportano a un mondo dominato dalle regole dell’utile, che è capace di fissare uno scopo all’esistenza, ma non di darle un senso in cui, alla fine, riconoscersi”.



In alcuni capitoli del libro, Pontiggia fornisce stranianti definizioni di espressioni di uso comune che nascondono però atteggiamenti opposti alle intenzioni di chi le usa, rivelando pregiudizi consolidati o speranze irrazionali (e ci fa ridere: “TARGHE ALTERNE Basta legarne l’uso a una scienza esatta come la meteorologia e il problema dell’inquinamento, oltre che del traffico, è risolto”). Tra i suoi pungenti aforismi, ce ne è uno che suona terribilmente attuale:



“DIALOGO Ricercato da tutti, purché non sia reciproco”. 

Se c’è una parola che sembra imprescindibile oggi è proprio la parola “dialogo”: eppure la glossa di Pontiggia descrive un atteggiamento che non è difficile riscontrare in molti di coloro che la usano, magari sbandierandola con enfasi.

Come è difficile usare le parole per ampliare la propria esperienza, invece che per eluderla! Quando manca questa serietà con l’esperienza anche le parole più importanti possono perdere il loro nesso con la realtà e diventare “locuzioni propiziatorie” o “giaculatorie sedative”. Pontiggia, con quell’umorismo pirandelliano di cui ha vivificato la lezione, sembra dunque da un lato richiamarci all’evidenza che non basta ripetere una parola sulla bocca di tutti perché sia efficace, ma dall’altro vuole distoglierci anche da una superficialità opposta: che, in conseguenza del rischio di un fraintendimento, le parole “di moda” debbano dunque essere svalutate, banalizzate e rifiutiate dal nostro vocabolario, in un atteggiamento di presuntuosa saggezza anticonformista (“Come diceva quella ragazza sgomenta al suo ragazzo: ‘Perché non sei anticonformista anche tu, come tutti gli altri?'”). 



Se il dialogo è davvero il problema di questo nostro tempo, la strada per usare questa parola senza fraintenderla è la responsabilità nei confronti della propria esperienza, unica fonte di un rinnovato rapporto di serietà e autenticità con il linguaggio. Solo per la lucidità con cui fanno i conti con l’esperienza (soprattutto con quelle che mettono l’uomo in scacco) gli scrittori possono diventare “compagni di viaggio”: accettando che il dialogo con loro, per diventare reciproco, possa svelare le nostre fragilità invece che rassicurare. Come era accaduto per Pontiggia leggendo Ambrose Bierce, se è vero che, come scriveva, “dobbiamo a scrittori solidali come lui se il male perde i contorni rassicuranti dell’estraneo e acquista quelli più temibili di noi stessi”.