Allo spazio espositivo dell’Ara Pacis è arrivata la mostra dedicata al maestro giapponese Katsushika Hokusai (1760-1849) e non a caso rispettosamente chiamata “Sulle orme del Maestro” (l’esposizione è iniziata il 12 ottobre e dovrebbe concludersi il 14 gennaio sempre che “by the popular demand”, come dicono gli inglesi, non si riesca a ipotizzare un secondo tempo). 



Il personaggio è di quelli dotati di fascino durevole, non soltanto per la qualità artistica e l’innovatività delle sue opere più celebri. Se facciamo caso alle date, la parabola biografica ed estetica di Hokusai corrisponde in Occidente a decenni di grande fermento. Ci sono dapprima le Rivoluzioni borghesi negli Stati Uniti e in Francia, che impongono un razionalismo secolare di tipo nuovo rispetto al passato. E c’è anche il volgere critico di quelle rivoluzioni, soprattutto in Europa, quando l’imperialismo napoleonico finisce con la (illusoria) restaurazione dello status quo ante. C’è, infine, la vicenda degli Stati nazionali, che senza il patriottismo romantico difficilmente i razionalisti dell’Illuminismo avrebbero saputo e potuto concludere. 



Se la debolezza della razionalità giuridica occidentale consiste nell’incapacità di tradurre le differenze culturali, Hokusai ben si lascia ammirare come pontiere tra i mondi, senza perdere mai i propri codici etici e normativi di riferimento. 

I più immediati sono quelli che riguardano la proiezione biografica del proprio temperamento artistico. Hokusai non si concepisce come un pittore con una fase iniziale, una lunga e più o meno fortunata fase matura e un periodo sfortunato e più o meno lungo di declino (la parabola tipica del pittore europeo, fino a che la longevità artistica dei Picasso e dei Dalì non aggiornò il paradigma). Hokusai, fino in punto di morte, si professa giovane apprendista bisognoso e desideroso di imparare e di affinare. 



I suoi contemporanei e colleghi della generazione successiva in Europa e soprattutto in Francia sono invece destinati a farsi sopraffare, ovviamente loro malgrado, dal cliché del ruolo: il nitore di Monet, la fuga nell’esotismo di Gauguin, la riscoperta postuma di Van Gogh, le presunte intemperanze di Cézanne e via di questo passo. 

Eppure lo scambio tra l’artista giapponese e quelli continentali è vero, incessante, e si nutre di ammirazione reciproca: un incontro tra culture né inedito, né sciatto. Ciò sottintende alcune istanze comuni che, però, come anticipato, riverberano in contesti ambientali diversi. Hokusai, alla stregua dei contemporanei d’Oltralpe, è ad esempio partecipe dell’organizzazione borghese della vita ludica che è tipica dell’Ottocento: i suoi protagonisti a stampa e in riproduzione sono perciò gli attori, i lottatori, gli spicchi imprevisti della natura rurale. 

E anche Hokusai vive una sorta di smarrimento generazionale dell’artista ormai privo del mecenate pubblico ufficiale. Ecco perché, per lungo tempo, vive diversificando profondamente la propria opera, facendo l’illustratore, il pedagogo, l’incisore: sono anni in cui le illustrazioni librarie sono genere a sé, incomprensibile solo con le categorie della pittura, e parimenti inaccessibile se ci si volesse limitare soltanto alle nozioni ermeneutiche. 

Hokusai, ovviamente, continua a studiare sempre, senza perdere mai la pazienza e la dedizione. Un’esplorazione delle tecniche, ma anche dei percorsi dell’inconscio. 

Basti guardare a “Il sogno della moglie del pescatore”(1820), che è curiosamente onirica rappresentazione di una donna posseduta da una creatura marina, ma che probabilmente è anche sogno inconfessato del pescatore, che vede a nudo la bellezza femminile della propria consorte sorpresa dal desiderio del polipo. Ed è meraviglioso, vera energia vitale, il ciclo delle Trentasei Vedute del Monte Fuji, ivi compresa “La grande onda di Kanagawa” (1830). Vorticosa bellezza che scaglia l’uomo ad ammirare l’insondabile: solo lo studio cerca, sempre volenteroso e sempre infruttuoso, di colmare lo scarto. Eppur qualcosa ci è sottratto ed è superbia pretendere di riconquistarlo agli strumenti della sola nostra ragione.