Chi si occupa di letteratura deve fare i conti, prima o poi, con la dimensione del “comico”; specie se interessato, in particolare, alla letteratura italiana, la quale presenta, alle sue origini, un capolavoro come la Commedia, e annovera poi, lungo tutto il proprio sviluppo, cospicue sperimentazioni giocose e umoristiche, di varia indole, di peculiare intonazione. E qualche settimana fa, l’Associazione degli Italianisti (Adi) ha dedicato alle “Forme del comico” il suo XXI congresso, svoltosi presso l’Università di Firenze. In attesa degli Atti, che offriranno agli studiosi aggiornamenti e approfondimenti a tutto campo, da Boccaccio a Machiavelli, da Goldoni a Palazzeschi a Campanile (ma si dovrebbero fare molti altri nomi, poiché il programma mirava, se non alla copertura totale, comunque a un monitoraggio assai dettagliato), non sarà inutile qualche annotazione. Non per un bilancio, che sarebbe, a questa fase, prematuro; semmai per fissare questioni e interrogativi che quei giorni di confronto hanno stimolato. 



Le definizioni del comico sono più d’una e farne l’inventario è qui impossibile; la sola riflessione novecentesca ha potuto meritare monografie ad hoc. Proviamo, allora, a isolare rapsodicamente qualche lacerto, con la consapevolezza che si tratta di ritagli unilaterali, selezionati non certo per rappresentare l’insieme attraverso una campionatura mirata, semmai per identificare una delle piste possibili. 



Ampiamente noto l’asserto di Aristotele: “Il ridicolo infatti è un errore o una bruttura che non reca né sofferenza né danno”. Un livello attenuato, dunque, della contraddizione? E proprio per questo oggetto di una conoscenza serena, di una rappresentazione priva a sua volta di dolore? La commedia sarebbe allora un genere meno impegnativo; e resterebbe di necessità al di sotto della tragedia, votata invece a sondare tutta la problematicità della condizione umana, coi suoi scompensi e attriti violenti. 

La modernità ha però dignificato il comico; mettendo, anzitutto, a fuoco la sfasatura da cui esso scaturisce. Nelle inquadrature teoriche dell’Otto e del Novecento, si insiste sull'”incongruenza”, con sottolineatura di un mancato aggancio dell’essere al dover essere: il riso colpisce ciò che non è come dovrebbe. In questa direzione, un passo importante fa Kierkegaard, che dell’incongruenza rimarca il carattere abissale, visto che i poli in gioco sono davvero incommensurabili. “Ciò che si trova alle radici sia del comico che del tragico è la discrepanza, la contraddizione tra l’infinito e il finito, l’eterno e ciò che è in divenire”. Se questa scollatura è con dolore, si ha il tragico; se rimane priva di sofferenza, ecco il comico. Quello che qui dobbiamo evidenziare è il riconoscimento della tensione umana all’assoluto, tensione costitutiva e insieme zoppa, priva di una corrispettiva, adeguata capacità, come le circostanze a più riprese dimostrano, come la coscienza acutamente percepisce, sia contemplando la catastrofe, sia avvertendo il difetto, la svista, il disguido, il passo falso. Chi inciampa desta ilarità, ma proprio per la sproporzione tra la sua grandezza e la sua miseria. Era intento a contemplare le stelle quel filosofo che, cadendo in un pozzo, suscitò lo spasso di una servetta. In questa prospettiva, la massima secondo cui il riso è proprio dell’uomo acquista un’implicazione tutt’altro che pacificante.



Ha reso un ulteriore omaggio al comico chi ha voluto valorizzare proprio quel tratto che continua a distinguerlo dal tragico anche nell’ipotesi di un etimo comune. Spetterebbe infatti al primo, e non al secondo, la prefigurazione di un universo redento, sottratto alla lacerazione e allo strazio. È la tesi del sociologo Peter Berger, autore, una ventina di anni or sono, di uno studio complessivo sulla dimensione comica (Homo ridens); rigoroso e dinoccolato studio, con la duplice prerogativa della lucidità e dell’arguzia (quest’ultima, a quanto pare, assai rara nelle dissertazioni sull’argomento, di norma compassate e seriose). 

Siamo autorizzati a riverberare queste acquisizioni moderne sui primi autori della letteratura italiana, ad esempio su Dante, che dovrebbe guadagnare il culmine del comico, in quanto autore di un’opera con un titolo tanto marcato? Veramente, quel titolo è tutt’altro che pacifico. Non basta precisare, come tutti fanno, che Divina Commedia è etichetta con omaggio postumo, quell’aggettivo interpolato da lettori entusiasti. Anche Commedia è forse denominazione spuria. È vero, il capolavoro dantesco propone esso stesso il termine “comedìa”, e proprio per autodefinirsi, ma lo fa nella prima cantica, non nella seconda, e nemmeno nella terza e conclusiva, dove esibisce altre credenziali, presentandosi come “sacrato poema”, “poema sacro”. 

Alberto Casadei ha insistito su questo dato, rivendicando la tensione di un’opera che si prefigge, al suo traguardo, di adeguare un oggetto e uno stile sublimi. “Comedìa” sarebbe allora un indicatore specializzato, relativo alla sola sezione testuale in cui effettivamente appare; ed equivarrebbe, grosso modo, a satira. Non la registrazione divertita e magari condiscendente di imperfezioni veniali, ma lo smascheramento del laido e del turpe. La prima cantica, infatti, passa in rassegna il vizio, quello diffuso sulla terra, quello calcificato eternamente entro il regno dei perduti. Si dirà: c’è l’Epistola del poeta a Cangrande della Scala, con la sua attestazione inequivocabile: “Il titolo del libro è: Comincia la Commedia di Dante Alighieri”. Se non che, l’Epistola è di dubbia paternità; e dispongono di buoni argomenti coloro che la ritengono non dantesca.

Un apporto, comunque, questo scritto è in grado di offrirlo; apporto utile, anche se di mano altrui. Fa notare l’estensore, chiunque egli sia, che il poema in questione afferisce al comico anzitutto perché contrassegnato da un inizio aspro e da una conclusione lieta: “la presente opera, all’inizio, è orribile e fetida, perché tratta dell’Inferno, ma ha una fine buona, desiderabile, gradita, perché tratta del Paradiso”. Prescindiamo un momento dalla questione del titolo: l’osservazione dell’Epistola a Cangrande illumina comunque un versante significativo, che non sarebbe giusto sottovalutare. Se intendiamo il comico non in riferimento a una mediocrità o bassezza di situazione e di stile, ma in relazione a un esito, allora la trama costituita dai tre regni e dall’itinerario del pellegrino ha effettivamente un inizio tragico e una fine comica. Si delinea perciò, nell’opera che inaugura il canone della nostra letteratura, un comico come redenzione finale. Non che la tragedia sia accantonata: è presente quale discordanza inclusa. Le spetta, di diritto, l’incipit; non ha l’ultima parola. Diviene anzi, nella vicissitudine di Dante, disceso all’inferno (la sua denuncia è anche una confessione), la circostanza attraverso cui giungere al lieto fine; che ne risulta potenziato, perché si giova persino dello sbandamento, della caduta, della rovina morale. L’errore non era lieve né indolore, era tragico; a quella tragedia è stato tolto il veleno.