Le sale della fortezza dell’Albornoz, a Spoleto, ospitano un bassorilievo risalente all’XII secolo, di autore ignoto, che raffigura il martirio di San Biagio. E’ un’opera di grande suggestione, in un certo senso molto attuale. La fattura è straordinaria: dalla uniformità immobile del marmo bianco l’artista ha saputo trarre volti espressivi, gesti dinamici e vivi, decorazioni raffinate, che sembrerebbe impossibile scolpire con tanta cura. Vengono alla mente opere analoghe, tutte legate alla scuola antelamica (ad esempio i “Mesi” del museo della Cattedrale di Ferrara).



Ma è nel contenuto, che ci parla del rapporto tra fede e potere, la sorpresa maggiore. San Biagio fu un vescovo armeno martirizzato pochi anni dopo l’editto di Milano del 313 d.C. Secondo la tradizione venne prima orrendamente torturato con i pettini di ferro usati per la cardatura della lana e poi decapitato. Fu venerato anche per i suoi miracoli, tra cui la guarigione di un bambino che stava per essere soffocato da una lisca di pesce in gola. Sue raffigurazioni sono frequenti nell’iconografia cristiana. Molte sono manieristiche, altre più travagliate, come quella di Michelangelo nella Cappella Sistina. Il bassorilievo di Spoleto racconta il suo martirio in modo diverso. Cinque quadri rappresentano in sequenza le scene dello strazio del suo corpo e la sua decapitazione. Ma l’opera non va letta solo in senso cronologico, da sinistra a destra, come fosse una “strip” moderna. E’ nel suo insieme che ne cogliamo il vero significato.



Ai due estremi della scultura stanno da una parte l’imperatore che contro di lui emette la sentenza di morte e dall’altra, a destra, Cristo che gli promette i beni del cielo. Entrambi siedono su un trono. Allo sguardo truce dell’uno, visto di profilo, quasi sfuggente, si oppone quello frontale, aperto dell’altro. La prima figura siede contorta, aggrappata al bastone del suo comando e spalleggiata da un consigliere riccamente vestito. La seconda è composta, circondata da angeli e tiene sulle ginocchia il libro con la promessa di vita. 

Il fascino di quest’opera è tutto in questa opposizione plastica tra Cristo e il potere, dentro la cui lotta sta la vita del vescovo Biagio. E’ significativo che la vicenda narrata si compia nel periodo chiave della definizione dei rapporti tra cristianesimo e impero. Ed è ancor più significativo che l’opera che l’ha rappresentata, fissandola per sempre nella pietra, si trovi oggi paradossalmente proprio nella fortezza spoletina, che fu voluta dal cardinale Albornoz per riaffermare sull’Italia centrale il potere temporale del papa dopo il disastro avignonese. 



Il tema dei rapporti col potere appartiene alla vicenda della fede fin dalle origini, ed è centrale anche ai nostri giorni. L’arte figurativa l’ha diversamente rappresentato e così, oggi, lo fa anche la settima arte. Verso il periodo dei “papi-re” il cinema italiano, ad esempio, ha mostrato in fondo una certa benevolenza, all’opposto dell’astio di molti altri. E nel giudicare il passato è bene conservare la prospettiva storica. Comunque, che non si possa tornare indietro è evidente. La nostalgia per l’egemonia perduta è un pericolo. Ma non è il solo, forse non il principale. Immagino infatti con orrore una ipotetica “strip” del futuro che rappresenti la nostra epoca in cui, a sinistra, sta ancora il potente di turno, con gli intellettuali a soffiargli nelle orecchie, in mezzo noi e, a destra, all’opposto, un quadro vuoto.