La mattina del 27 febbraio 1931 l’ispettore Ottaviano Malossi, nella sua casa di Firenze, sta beatamente sognando di essere alla guida di una fiammante Fiat 521 Coupé; ma il bel sogno viene bruscamente interrotto dallo squillo del telefono, che lo richiama ai suoi doveri di poliziotto: è stato infatti ritrovato un cadavere lungo la massicciata della linea ferroviaria all’altezza di Prato. E mentre la moglie si rigira nervosamente nel letto, Malossi è costretto a lasciare il tepore delle coperte per affrontare un caso che ha tutte le stimmate della brutta gatta da pelare.
Così si sviluppa il racconto di Prima dell’alba, di Paolo Malaguti (Neri Pozza, 2017, 299 pp., 17 euro). L’autore, classe 1978, nativo di Monselice e docente di lettere, è una firma di lungo corso de ilsussidiario.net. Finalista al Premio Strega (2016) con La reliquia di Costantinopoli, sempre pubblicato per Neri Pozza, con Prima dell’Alba offre un esempio bello e dolente di “giallo atipico”, facendoci seguire l’indagine dell’ispettore Malossi, che comprende quasi subito dove si nasconda la verità. Il morto che ha causato la sua levataccia, infatti, è di facilissima identificazione, visto che ha addosso i documenti: si tratta di un pezzo da novanta, niente di meno che di Andrea Graziani, luogotenente generale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, decorato con una delle quattro medaglie d’oro di benemerenza del re per l’organizzazione dei soccorsi dopo il terremoto di Messina nel 1908, tenente colonnello di stato maggiore, da settembre del 1914 maggiore generale, medaglia d’oro al valor militare nel ’15, comandante della brigata Jonio in Valsugana nel ’16, onusto di onori sul Pasubio, e nel ’18 comandante del corpo cecoslovacco in Italia (formato da prigionieri slovacchi, boemi e moravi chiamati a dare manforte contro l’Austria con la prospettiva dell’indipendenza).
Ma Graziani è anche stato — e Malossi, un “ragazzo del ’99” che la Grande Guerra l’ha fatta, anche solo per pochi mesi, lo sa benissimo — colui che dopo Caporetto ha mantenuto la coesione dei soldati imponendo una ferrea disciplina, con punizioni durissime e fucilazioni senza processo non solo per sbandati e disertori, ma anche per i colpevoli di minime infrazioni: non per nulla, l’esergo di Prima dell’alba recita: “Romanzo in memoria dell’artigliere Alessandro Ruffini fucilato a ventiquattro anni a Noventa Padovana il 3 novembre 1917 per un sigaro”, cioè perché si sarebbe messo sull’attenti davanti a Graziani senza togliersi il sigaro (o la pipa) di bocca. Malaguti della Grande Guerra è un esperto: rimando ai contributi apparsi proprio su queste pagine, per esempio a quello del 3 aprile scorso, a proposito delle fucilazioni sommarie, che cita il caso di Ruffini, ma anche quello di Pietro Scribante, del 113 fanteria, fucilato dopo un processo-farsa, durato pochi minuti e condotto davanti alla bara già pronta. Ricordiamo poi che per tutte le città, Treviso, Padova, Vicenza, venivano affissi manifesti, tremendi, che Malaguti riporta all’inizio dei capitoli, come monito e memoria delle infrazioni punite con la fucilazione.
Il cadavere di Graziani ha ancora addosso più di seimila lire, una gran cifra per l’epoca; e che non ci sia stata volontà di rapina lo dimostra anche il fatto che i suoi effetti personali siano ritrovati intonsi nello scompartimento del treno al capolinea. Dunque, nessun interesse materiale nella morte di quest’uomo tanto noto e tanto temuto.
Il romanzo è costruito per piani alternati, facendo seguire a un capitolo che vede in scena Malossi un capitolo che segue le giornate del Vecio, un fante impegnato in trincea. La sua vita, come quella di tutti, si divide fra gli attacchi e le estenuanti attese tra i pidocchi e il rischio di una malattia (polmonite, dissenteria) che, a volte, si porta via i più robusti e i più esperti, quelli che magari sono sopravvissuti a tutte le offensive e vengono invece mandati all’altro mondo da una apparentemente banale infezione. Il Vecio, “il vecchio”, che vediamo nella prima pagina impegnato a scrivere una lettera alla “sposa”, consapevole che alla “Signorina Anastasia” (cioè alla censura) non si sfugge, è così chiamato non tanto per gli anni che ha sulle spalle, anche se, rispetto ai ventenni neo-arrivati al fronte, è un uomo fatto, uno dei tanti che, nati fra il 1880 e il 1885, s’erano illusi di essere dispensati dal servire la Patria per Trento e Trieste in quanto “credevano di averla sfangata, o al massimo di aver pagato il giusto dazio all’Italia nell’11 sulle sabbie della Libia”. No, il Vecio porta questo soprannome perché del suo plotone, arrivato nel maggio del ’15, lui solo è rimasto vivo, e quindi può osservare, dall’alto della sua ben triste esperienza, con occhio clinico, i comportamenti dei nuovi arrivati, degli “aspiranti cadaveri”. E può anche riflettere sull’insensatezza della vita di trincea, e della guerra in generale, cui si cercava di sfuggire in ogni modo.
Malossi, che pure è stato in guerra, anche se per pochi mesi, intuisce subito, a partire dalla testimonianza di un giovane e sveglio controllore, che cosa sia potuto accadere. Tanto più che anche l’ispettore ha sperimentato quella sensazione di straniamento successiva alle tante commemorazioni della Vittoria, quando “la cerimonia, come tutte le cerimonie, finiva. La banda militare rompeva le righe, e dopo l’ultimo colpo di grancassa Malossi avvertiva sempre, immancabilmente, una sorta di stonatura, e la leggeva chiaramente anche nei sorrisi vagamente imbarazzati degli altri lì presenti”. E’ il disagio, o, come gli spiega uno degli oltre seicentomila mutilati che la Grande Guerra si lasciò dietro, l’odio di chi in guerra ha perso i suoi cari, perché, magari senza un braccio o una gamba, alcuni sono tornati, e altri no; è il disagio, anzi l’odio, di chi la guerra non l’ha fatta e non la voleva, per la retorica post-bellica che per anni ha riempito piazze e giornali. L’indagine di Malossi, quindi, prima ancora di avere lo stigma dell’ufficialità (il regime vuole chiudere presto e in modo indolore la questione, avallando la versione dell’incidente), è un viaggio a ritroso nei suoi ricordi, per capire fino in fondo il disagio di chi, dopo aver sperimentato la vita di trincea, non è più potuto tornare all’esistenza di prima se non cercando di eclissare nella sua memoria l’esperienza della guerra.
Manca qui lo spazio, ma ci sarebbe ancora molto da dire di questo romanzo, che assomma documentazione storica impeccabile, una scrittura capace di complessità e che rifugge da ogni banalizzazione, e una grande forza introspettiva verso i moti segreti e dolenti dell’animo umano. Un romanzo che merita davvero la lettura.