Parlare oggi dell’inizio della Riforma protestante si riduce spesso a un’occasione da tifo calcistico: ognuno ne prende spunto per riaffermare la propria visione di una verità chiusa e indiscutibile, demonizzando l’interlocutore che sta dall’altra parte della barricata. Così non cambia nulla e solo si inaspriscono le divisioni in blocchi contrapposti, le rivalità tra i diversi orientamenti di sensibilità, persino tra fratelli della medesima appartenenza di fede.



Ma si può anche invertire la rotta: il ricordo di un evento storico così complesso come la frattura della cristianità latina può diventare una provocazione oggettiva, che si impone dall’esterno e ci interpella, costringendoci a una verifica. Cosa ci suggerisce il confronto con le lotte religiose di cinque secoli fa? Cosa indicano, quei fatti remoti nel tempo, come strada da percorrere nel cammino del nostro presente, dentro la carne reale della nostra esperienza di uomini e donne del XXI secolo?



Non si possono sottovalutare le differenze che separano le diverse confessioni scaturite dai conflitti su scala europea della prima età moderna. Ma è completamente anacronistico, fuori da ogni realtà storica, immaginare che nessun genere di parentela leghi le vie diverse imboccate da identità cristiane che si sono a lungo respinte a vicenda come eresia da sradicare. La scissione si è creata a partire da un unico tronco. Le dottrine rivali hanno attinto dal medesimo serbatoio di fonti e hanno rivendicato per sé il privilegio di costituire l’unica interpretazione autentica in tutti i suoi risvolti, fino ai minimi dettagli secondari. Ma il punto di convergenza sta molto al di sotto della formulazione del discorso teologico: sta nella rivendicazione della centralità della fede religiosa come pilastro su cui perseguire la ricerca della consistenza del proprio io, quel valore supremo che gli autori del passato usavano definire come la salvezza, o la “giustificazione” dell’uomo vivente in rapporto alla verità del suo destino. Venendo al dunque decisivo: possiamo dire che la salvezza è rimasta davvero “interessante” per noi, oppure no?



Qui si colloca la provocazione più radicale che nasce dal confronto con il mondo di Lutero, poi anche di Calvino, del pietismo seicentesco e di Bach: più che stabilire un elenco di vinti e di vincitori, invece di innalzare i tribunali di nuove Inquisizioni moderne con opposti intenti distruttivi, vale la pena interrogarsi seriamente su ciò che ha ancora da dire, a noi Prometei moderni, l’impossibilità di uscire da soli dalla prigione dei nostri limiti e cercare una “solida roccia” su cui ricostruire. Nella linea del Vaticano II e delle dichiarazioni comuni sul tema del dialogo tra le confessioni, occorre riaprire la domanda su ciò da cui può venire la salvezza piena, integrale ed eterna. Gli antichi la chiamavano “grazia”. È innanzitutto dono, e si fa percepire in tutto il suo peso se trova ancora aperto il varco di una domanda che si fa preghiera, adorazione, ringraziamento: per la redenzione operata da Cristo prima di tutti i nostri meriti e di tutti i nostri calcoli di egemonia politico-culturale.