PREMIO NOBEL LETTERATURA 2017. E così ha vinto Kazuo Ishiguro. Dopo la sorpresa dell’anno scorso, con Bob Dylan, che sollevò tanto scalpore e tanto fece discutere, l’Accademia di Stoccolma è ritornata a una scelta più convenzionale, premiando il romanziere giapponese naturalizzato britannico. La motivazione — “nei suoi romanzi di grande forza emotiva ha scoperto l’abisso sottostante il nostro illusorio senso di connessione con il mondo” — coglie in modo ineccepibile uno dei temi di fondo della sua narrativa. Quest’anno il Nobel premia uno scrittore che, finalmente, mette d’accordo pubblico e critica, molto letto e molto amato, i cui romanzi hanno ispirato il cinema (e sia detto en passant, non sembra che queste caratteristiche potrebbero indicare anche un altro romanziere amatissimo per cui tanti fan auspicano il premio, Ian McEwan?).



“Spero solo che ricevere questo grande onore, anche se nel mio piccolo, possa incoraggiare in questo momento le forze del bene e della pace”, ha dichiarato il premiato, nato a Nagasaki nel 1954, ma ormai cittadino britannico. Ishiguro ha affrontato nei suoi romanzi temi all’apparenza diversissimi fra loro, da quello dell’infanzia, con venature di fantascienza-horror (Non lasciarmi del 2005, diventato nel 2010 un film con A. Garfield e C. Mulligan, K. Knightley e C. Rampling),  al fantasy (Il Gigante sepolto, il suo settimo e ultimo libro, del 2015). Ma al grande pubblico Ishiguro è diventato familiare con Quel che resta del giorno (1989), il più meritatamente celebre dei suoi romanzi, da cui James Ivory nel 1993 trasse l’omonimo film di tragica eleganza, con Anthony Hopkins ed Emma Thompson. 



In quelle pagine, disperatamente elegiache, animate dalle mezze tinte delle ombre che si allungano nel tramonto, davvero capiamo quale sia “l’abisso sottostante l’illusorio senso di connessione con il mondo”: è quello che, per anni, l’impeccabile e raggelato maggiordomo Stevens si è rifiutato di guardare. Stevens, così compreso in quella che crede la sua “missione”, e dagli orizzonti così limitati, interamente dominato dal desiderio di acquisire una “dignità all’altezza della posizione che si occupa”, e di determinare la natura della “grandezza” (di un maggiordomo o di una governante, beninteso), solo dopo molti anni si rende conto di quanto ha perso, di quale occasione di felicità ha solo sfiorato con la vivace Miss Kenton, la governante che rivede dopo tanto tempo. Ma ormai la donna ha passato anni intrappolata in un matrimonio scelto all’inizio solo per “fare arrabbiare” l’impettito maggiordomo. E ora la candela del tempo è quasi esaurita, e si può solo godere, appunto, di quel che resta del giorno, senza stare perennemente a pensare a quel che avrebbe potuto essere,  e non è stato (e forse, anche, allo sciupìo della vita).

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