L’INTERVISTA A MILLENNIUM
Anche se oramai la Francia può essere considerata la sua patria di adozione, facendo spesso la spola tra Parigi e l’Italia assieme a Judith Revel, la sua attuale compagna, Toni Negri continua a far discutere e ogni sua intervista o apparizione pubblica riesce a scatenare dibattito. Infatti, l’85enne ex attivista di estrema sinistra nonché filosofo, tra i fondatori di Partito Operaio e una delle anime di Autonomia Operaia negli anni Settanta, ancora oggi divide l’opinione pubblica nel Bel Paese e soprattutto il mondo della sinistra, sulla scia di una celebre definizione che diede di lui Indro Montanelli, appellandolo come un “cattivo maestro”: e, in un’intervista che il pensatore originario di Padova ha rilasciato al mensile Millennium a Salvatore Cannavò, coglie l’occasione per tornare su alcuni dei temi che gli tanno a cuore, quali la lotta all’imperialismo secondo le categorie marxiste a lui care, una rievocazione del ’68 e dei motivi che hanno portato all’esaurimento della sua spinta propulsiva e che sono trattati anche nel suo nuovo libro, intitolato “Assembly”.
TONI NEGRI, LE RIFLESSIONI SUL ’68
Proprio l’ultimo volume, dato allo stampe e scritto a quattro mani con Michael Hardt per i tipi della Oxford University Press, offre già una chiave per penetrare nell’universo teorico di Toni Negri dato che “Assembly” è pubblicato nella collana intitolata Heretical Thought: e, a suo modo eretico e a volte volutamente anacronistico, sembra oggi il pensiero di Negri che, nella lunga conversazione con Cannavò su Millennium, racconta di non aver affatto abbandonato il mondo dell’attivismo e delle lotte operaie, facendo anche un bilancio della sua oramai lunga vita e ribadendo di sentirsi ancora un Sessantottino: “Mi sento un uomo degli anni Sessanta, quando nel mio Veneto scoprii un proletariato antifascista” ricorda Negri, aggiungendo che all’epoca lui e i suoi compagni erano tutti estremisti. Rievocando quella intensa stagione di lotte, il filosofo spiega che il suo ’68 è stato guidato sì dalla stella polare delle rivendicazione per i lavoratori, ma l’obiettivo era anche quello di “conquistare il potere in fabbrica, dato che non c’erano solo operai ma anche studenti, come un giovane Massimo Cacciari, allora laureando in Architettura a Venezia”. A giudizio di Negri, l’odio per l’esperienza sessantottina che ancora oggi pare molto diffuso è dovuto a una cultura reazionaria che è cresciuta parallelamente: “Il ’68 ha fatto saltare tutti gli equilibri precedenti” conclude Negri, “e quindi conteneva in sé già la sua stessa repressione”.
25 ANNI DI “VITA SPERICOLATA”
A proposito invece degli echi che il ’68 ha continuato a riverberare fino ad oggi, Tono Negri puntualizza una sua vecchia affermazione, secondo cui sarebbe “un albero sontuoso”: infatti, a suo giudizio, quell’esperienza in Italia è durata ben dieci anni, molto più che in Germania e Francia. L’eccezionalità del caso italiano “derivò dalla confluenza del movimento studentesco e di quello operaio”, tanto che nel 1977 quel fenomeno raggiunse la sua piena maturità: uno dei passaggi più interessanti dell’intervista dell’ex leader di Autonomia Operaia è quello in cui racconta come in quell’anno “la ribellione civile investe la città, uno dei luoghi di produzione” e, a giudizio di Negri, quella è stata la testimonianza più lampante “di una vita che non vuole essere mercificata dal dominio capitalistico” e che, raggiunta la maturità, si ribella. Sule violenze di quel periodo, di cui lui fu ritenuto uno dei responsabili morali, l’intervistato preferisce non tornare: “Dopo gli undici anni di galera e i quattordici di esilio, non voglio tornare su quella storia”, taglia corto, aggiungendo comunque di non sentirsi una vittima ma semplicemente di aver vissuto una vita spericolata come canta Vasco Rossi, “e mio figlio me lo ricorda sempre”.
IL GIUDIZIO SULLA SINISTRA ODIERNA
Esaurita la rievocazione di quegli anni, Toni Negri tiene a fare una precisazione a Salvatore Cannavò: “Non sono mai stato in realtà un cattivo maestro, e nemmeno un maestro” spiega l’ex deputato della Repubblica, anche se non nega di aver rivestito questo ruolo per tantissima gente, ma comunque al pari altri suoi compagni. Insomma, dalle sue parole si evince come lui si sia sempre sentito un intellettuale “organico a un più vasto processo”, nonostante oggi non senta la responsabilità per l’epilogo drammatico di quegli anni, ovvero l’assassinio di Aldo Moro, dato che a suo dire “la colpa è di tutti, in primis di un sistema politico che non ha voluto capire che il ’68 è stato un periodo di creazione e vitalità che rivendico in pieno”: infatti, secondo Negri, da allora nel mondo ci sono state solo poche altre esperienze simili, ovvero le proteste di Piazza Tienanmen a Pechino, la prima fase di Solidarnosc e la rivolta del 2001 in Argentina. In chiusura di intervista, c’è spazio per una breve riflessione sullo stato di salute della sinistra nel mondo, anche se a riguardo Negri mostra il suo pessimismo, affermando che “è il momento peggiore per rispondere a questa domanda” ma trovando una nota di ottimismo nel bilancio della sua vita: le soddisfazioni sono tante, a partire da quelle familiari, fino a quelle accademiche (si vede la cattedra offerta ad Harvard) e alla sopravvivenza del movimento operaista. “L’unico rimpianto? Non aver visto ancora una moltitudine di cattivi maestri” chiosa maliziosamente Negri.