Arrampicato alle scalette dell’Intercity Notte, l’amico palermitano mi porge tra le mani un brick colorato: “Questo è per te. Latte di mandorla, quello buono. E ricorda: Palermo è chiù megghiu“. E mentre il capotreno fischia la partenza guardo le ombre cadere alte su uomini, cani e randagi che abitano la stazione centrale: il luogo dove tutto accade, inizia e finisce, pronto a riniziare nuovamente. Balena nel cui corpo smisurato si muove una fauna umana ed animale fatta di perdite, incontri e partenze. 



Quella di Palermo mi è subito parsa una bellissima e languida tigre sfinita dal caldo nell’ora della siesta. Nella luce accecante di un pomeriggio mediorientale ho visto un bambino di cinque anni allestire qui il suo campo da calcio, tra i binari e i cani sdraiati all’ombra dei muri. Figlio del Sud, quella stazione era la sua patria celeste, il suo mondo. 



Il treno attraversa l’oscura notte sicula accompagnato dalla lenta sinfonia delle cicale, piega verso Cefalù, Barcellona, Milazzo, Messina Centrale. Sono cullato dolcemente nel sonno dal caldo delle rotaie, dall’odore dei freni e delle lenzuola di carta di quand’ero bambino, da quel vento prodigioso che a ogni stazione mi porta nel cuore echi della memoria, voci, canzoni.  Il mio compagno di cuccetta è un elegante sicario vestito in nero, con la faccia bruciata dal sole. Non parla, se non per chiedermi qualcosa in una lingua che non m’appartiene. Ha i capelli tirati a lucido all’indietro e il viso solcato da chissà quali storie, anni, apparizioni. Lo guardo dormire nello scompartimento in alto e poi svanire a Napoli Centrale, inghiottito dalla stessa notte da cui era venuto.



Ritorno verso Nord dalla città fiore fenicia, greca, araba e normanna da cui si è solo visitati: dall’oro del barocco e dei suoi mosaici alla vertigine delle muquarnas, dai suoi quartieri dove tutto è rovina e splendore, gloria e distruzione alle torri di macerie che si alzano tra i palazzi-bunker dello Zen. Viaggiando verso Nord cade la notte, la grande notte che è solo mia e di tutti e dalle profondità marine del sonno riappare ‘Zi Peppe che chiede a noi bambini delle zite, ritornano ad accendersi ad intermittenza la cassadruma e la cassastuta contro il buio della notte. Ritornano i viaggi in treno di mio padre migrante con la nostalgia dell’isola nel cuore, l’allegria di Peppe “Marzo” che fu Mandorlo Angelo, che fu di don Peppe Lima figlio naturale e capostipite della famiglia. Ritorno io che ora viaggio verso Nord, figlio della Romagna bizantino-celtica e della Sicania. 

La terra bruciata lascia il posto agli Appennini, i fichi d’India nomadi della luce alla verde campagna coltivata. Immersi nel respiro delle foreste i borghi arroccati dell’Italia centrale mi guardano dal loro cuore di pietra mentre mi avvicino alla città eterna, l’Urbe, Caput mundi. Ma Roma non è ancora Nord, è la “stupenda e misera città” di Pasolini, Sud latino consapevole della propria grandezza e miseria. Né mi conduce verso settentrione la Romagna solatia, enclave del Sud che si affaccia sull’Oriente, fatta di ritmi distesi e di albe incandescenti sul mare. Solo oltrepassata la linea gotica mi accoglie l’Emilia con il “cielo padano plumbeo” dei C.s.i, più avanti, oltre le cascine e le file dei pioppi che si distendono all’infinito, dentro la grande pianura alluvionale. 

Fuggo dal cielo basso, dalla cappa di piombo che mi opprime. Nord è quattro lettere che sfidano le altezze, “r” vibrante che s’increspa sulla dentale e già dalle ultime pianure dove si tuffano maestosi gli aironi vedo le pareti verticali di roccia spezzare la linea dell’orizzonte. Vedo i ghiacci del Similaun brillare nel buio delle palpebre, ecco Ötzi con una freccia conficcata nella spalla sinistra cadere sulla dura pietra, il suo respiro affannato farsi un lago blu cobalto, invocare qualche dio. Ancora più oltre, sulle forcelle della Grande Guerra, dal bianco puro della dolomia fino alle creste scure del Gronton, tra le trincee e gallerie scavate nella montagna. Solo un nitrito di cavalli corre lungo le pareti, si dilata oltre questi dirupi. Ed è il millenovecentoquindici che mi chiama, chiama la pietra silenziosa, chiamano le bianche ossa dei morti dentro questo mare di roccia che respira ad ogni passo. Lascio tutto per trovare la mia origine, la mia dura, acuminata essenza. Verso Nord che è perfezione geometrica, cristallo e vertigine.

muquarnas: soluzioni decorative tipiche dell’architettura musulmana, presenti nel soffitto ligneo della Cappella Palatina (Palermo).

zite: fidanzate.

cassadruma, cassastuta: da bambini, per un naturale gioco fonetico, le espressioni in siciliano ‘cca s’addruma e ‘cca s’astuta (“qua si accende”, “qua si spegne”) pronunciate dal nonno Peppe si trasformavano magicamente in nuove, imprevedibili parole.

C.s.i acronimo per Consorzio Suonatori Indipendenti, la ex-band di Giovanni Lindo Ferretti. La citazione è dal brano Linea gotica.