Prosegue “Mediterraneo, mare di cristallo”, il taccuino del viaggio marittimo-letterario compiuto dall’autore (ndr).

Gli eroi e i santi

Da Cefalonia ho preso il traghetto e il pullman per recarmi in un piccolo villaggio balneare nei pressi di Corinto, dove mi sono aggregato a un’escursione organizzata per quella cittadina, o meglio per i suoi resti archeologici, difficilmente raggiungibile se non si dispone di mezzi propri.



L’autostrada per Corinto è parallela alla vecchia litoranea a strapiombo sul mare, in quanto segue fedelmente la costa del Golfo Saronico: a pochi metri da lì si erge la maestosa isola di Salamina: ogni guida ricorderà la famosa battaglia navale dove gli Ateniesi ottennero la vittoria sui Persiani di Serse.

Corinto, già citata da Omero con l’epiteto di “opulenta”, nel VII secolo a.C. rafforzò la propria economia e sviluppò l’arte della navigazione, grazie all’esportazione di prodotti in Occidente, dove aveva fondato le due colonie di Siracusa e Corcira. 



La città sull’omonimo istmo giunse all’apice della sua prosperità nel V secolo a.C. e prese parte allo scontro tra Greci e Persiani in tutte le battaglie, combattute per terra e per mare. 

Dopo la conquista romana nel 146 a.C., la città rimase inabitata e deserta per un centinaio di anni. Sulle rovine dell’antica città, Giulio Cesare, nel 44 a.C., fondò una colonia romana, denominata in suo onore colonia laus Iulia corinthiensis. I coloni stranieri erano in prevalenza liberti romani; presto, tuttavia, vi si stabilirono anche greci, e quindi molti mercanti, marinai e artigiani di provenienza orientale, in particolare nei suoi porti maggiori, Kenchreai e il Lechaion. I nuovi abitanti di Corinto comprendevano anche numerosi Giudei, fatto che spiega sia l’importazione molto precoce del cristianesimo, sia la visita dell’apostolo Paolo nel 52 d.C. 



Le prime vestigia archeologiche ad apparire tra le fronde di alberi sono le poderose colonne in stile dorico del tempio di Apollo, innalzato nel VI secolo a.C. I resti venuti alla luce appartengono sopratutto all’età romana, cioè all’epoca in cui la città venne ricostruita da Giulio Cesare dopo il saccheggio del console Mummio del 146 a.C.; dell’età greca si è conservato pochissimo, perché la distruzione operata dai Romani era stata totale. Quello che sto vedendo è più o meno quello che vide Paolo, quando arrivò qui intorno al 52 d.C.

Nel 50 Paolo arrivò ad Atene, dove pronunciò il celebre discorso dell’Areopago (Atti 17, 22-32): “Cittadini ateniesi, vedo che in tutti siete timorati degli dei. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve l’annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, che non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini dello spazio perché lo cercassero, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come alcuni dei vostri poeti hanno detto: Poiché di lui noi siamo la stirpe. Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana. Dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col resuscitarlo dai morti”.

Finito il discorso, alcuni dei presenti lo deridevano, poiché avevano sentito parlare della resurrezione dei morti, altri si allontanarono, ma — assicura Luca — altri si convertirono, come Dionigi l’Areopagita. Ma Paolo partì da Atene alla volta di Corinto, dove rimase un anno e mezzo.

Sono entrato ora nella città, probabilmente nella stessa strada nel lato nord dell’agorà romana da cui entrò Paolo, ovvero dalla via del Leschaion, che collegava la città al suo porto situato sul Golfo di Corinto. La via lastricata, con stretti marciapiedi, aveva da entrambi i lati portici e botteghe, dove si comprava e si vendeva, creando un vivace brusio. Ma ora c’è solo la desolazione della materia.

Paolo, dirigendosi verso nord, ascolta ancora lo scrosciare della fontana Priene, mentre si guarda intorno nella Corinto brulicante di chiacchiere e traffici d’ogni sorta.

Nei pressi di piccole botteghe, rigurgitanti di tessuti di porpora, spezie dell’Oriente più remoto, e di articoli di lusso, vedo Paolo avvicinarsi, facendosi strada tra persone che lo guardano e parlano.

Dietro le botteghe, il livello del terreno saliva, e qui c’era il bema, ossia una tribuna monumentale del tribunale da dove il proconsole romano parlava ai cittadini riuniti sulla piazza: al bema si accedeva sia dalla parte posteriore libera sia salendo i gradini della scalinata.

Paolo ormai è sotto il bema, mentre la calca lo circonda.

Sul bema compare un uomo vestito con tunica e laticlavio rosso. Qualcuno di fianco a me mormora che è il proconsole romano Lucio Giulio Gallione, fratello del famoso Seneca, precettore dell’imperatore, come leggiamo (Atti 18, 12-17): “Mentre era proconsole dell’Acaia Gallione, i Giudei insorsero in massa contro Paolo e lo condussero al tribunale dicendo: ‘Costui persuade la gente a rendere un culto a Dio in modo contrario alla legge’. Paolo stava per rispondere, ma Gallione disse ai Giudei: ‘Se si trattasse di un delitto o di un’azione malvagia, o Giudei, io vi ascolterei, come di ragione. Ma se sono questioni di parole o di nomi o della vostra legge, vedetevela voi; io non voglio essere giudice di queste faccende’. E li fece cacciare dal tribunale. Allora tutti afferrarono Sostene, capo della sinagoga, e lo percossero davanti al tribunale, ma Gallione non si curava affatto di tutto ciò”.

Ma considerando tali avvenimenti, Paolo ritenne opportuno lasciare Corinto e recarsi a Efeso, da dove inviò la sua Prima lettera ai Corinzi nei primi mesi dell’anno 55.

“La lettera — mi ero annotato prima della partenza — è di estremo interesse per comprendere i problemi che potevano sorgere allorché il vangelo di Gesù veniva accolto in ambienti di cultura non giudaica, ma pagana. Paolo ha qui predicato in un clima religioso nel quale si attende la salvezza da un intervento escatologico divino che rappresenta il culmine di una lunga storia di relazioni tra un popolo e il suo Dio” (Storia della letteratura cristiana antica greca e latina di Moreschini e Norelli). Il singolo credente, in un’intima adesione alla divinità che lo pone in rottura con il passato individuale e collettivo, è afferrato dalla divinità e, partecipando al destino mitico di essa, è reso sin d’ora libero dall’assoggettamento alle forze demoniache. “Tipici di tale atteggiamento sono l’entusiasmo, cioè la convinzione di essere abitati dallo spirito divino; l’individualismo; una certa tendenza all’indifferentismo morale, in quanto ci si ritiene al di là del bene e del male; la persuasione che lo spirito dell’essere umano è già salvo, mentre il corpo non lo sarà mai né vi è ragione che lo sia” (Ibid.).

Nella stessa Prima lettera che Paolo scrisse ai Corinzi, in segno di conciliazione per i nuovi fedeli in Cristo, compose il famoso inno alla carità come supremo valore del Vangelo (1 Cor 13, 1-3). 

Mentre le porte del pullman si richiudono, getto un ultimo sguardo verso la striscia di blu intenso in cui si protende l’istmo di Corinto: è il Mediterraneo, le cui acque sono increspate da un afflato di amor divino.

(10 – continua)

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