Fuori Roma, verso le montagne del Lazio meridionale, si estendono vallate luminose e boschive. Quella che culmina nel paese di Olevano Romano è stata ritratta contro un cielo soffuso di azzurro da Camille Corot in uno dei suoi viaggi italiani. E proprio alla “Serpentara” del pittore francese pensava Pasolini quando, nel 1961, scelse lo stesso luogo per girare le ultime inquadrature di Accattone: “Dovevo scegliere una vallata che, in un sogno di Accattone — verso la fine del film, poco prima della sua morte — raffigurasse un rozzo e corposo paradiso”. 



Una certa nostalgia di paradiso, infatti, innerva la prima pellicola del regista fin dall’apertura nel segno di Dante, i cui versi campeggiano sulla prima schermata: “l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno/ gridava: ‘O tu del ciel, perché mi privi?/ Tu te ne porti di costui l’etterno/ per una lagrimetta che ‘l mi toglie'”: è la contesa del V canto del Purgatorio tra l’angelo di Dio e lo spirito maligno per accaparrarsi l’anima di Buonconte da Montefeltro, che si salva in extremis per una “lagrimetta” in punto di morte, con buona pace del diavolo che si vede sottrarre dalle grinfie una preda creduta sicura. 



Accattone sarebbe preda ben più certa, con la sua vita da niente, da mantenuto e magnaccia, senza lavoro, senza orizzonti, senza alcun orientamento morale; capace di sporcare anche l’incontro più luminoso della vita: Stella, innocente e chiara, presto avviata alla prostituzione. Ma Accattone pare pentirsi, e, per la donna amata, prova a cambiare. Ma troppa fatica il quotidiano duro lavoro, troppo pesanti quei quintali di ferro da caricare, e dopo un solo giorno Accattone decide di tornare all’extra legem

Quella stessa notte Vittorio, questo il vero nome del protagonista, nel sonno agitato, sogna. Su uno sfondo polveroso, di sovrumano silenzio, Vittorio, come istupidito dall’atmosfera irreale, incontra i suoi amici vestiti a lutto che gli rivelano: “Accattone è morto”. Allora si accoda, incredulo e smarrito, dietro alla processione, ma all’ingresso del camposanto è brutalmente fermato dal custode: “Tu non puoi entrà!”. Accattone, solo, affannato, escluso, si guarda intorno, “accanito e ingenuo come un bambino”, specifica la sceneggiatura, poi si arrampica sul muretto, lo scavalca e scende dall’altra parte. La camera indugia sul primo piano di Vittorio per poi offrire il campo lungo della vallata di Olevano e scendere pian piano fino a inquadrare una schiena curva che scava una buca nella terra buia. 



Accattone rompe il silenzio: “A sor maè, perché nun me la fate un pochetto più in là? Non lo vedete ch’è tutta scura qui la terra?” “Me dispiace, non posso” ribatte il vecchietto; ma Accattone (e che volto Franco Citti!) incalza: “Fatemela un po’ più in là, poco poco, per favore, sor maé” “E va beene”. Allora il vecchietto si sposta poco oltre, guarda, complice, Accattone e affonda il piccone nell’erba bianca di sole. La camera torna a salire sulla vallata tutta illuminata. Accattone poco dopo questo sogno (sei minuti intercorrono tra una scena e l’altra), nella rocambolesca fuga dopo aver compiuto un furto, si schianta in moto. È a terra, col sole in faccia e sussurra: “Aaaah… Mo sto bene!”.

Pasolini sostiene che il suo Accattone sia una tragedia, perché di certo nessuna speranza può essere rintracciata nel gesto meccanico e superstizioso del Balilla che si fa il segno della croce di fronte alla morte dell’amico. Vero. Ma a me Accattone, invece, riempie di speranza. Lo stesso autore afferma: “In Accattone vi è una misera luce di coscienza che arriva con la morte”. E chi lo dice che non basti questa “misera luce”? Anche se nell’ultimo respiro, anche se nel contrattare un posto al sole per la propria tomba. Chi lo dice che il desiderio di luce, fino alla fine, ostinato, “accanito e ingenuo come un bambino”, non sia esso stesso l’abbrivio della Luce?