Cara Michela Murgia, sarò sincero, le scrivo perché l’ammiro come scrittrice, sennò non ne sarebbe valsa la pena: non solo mi è piaciuto Accabadora, il cui valore è universalmente riconosciuto, ma anche altri libri suoi, come la storia esilarante ma drammatica di Maurizio e dei suoi amici ne L’incontro, confermano la stima nei suoi confronti come di una dei migliori narratori in un panorama in realtà abbastanza scadente come quello italiano. Proprio per questo l’arzigogolato articolo pubblicato sull’Espresso in cui propone di parlare di “matria” anziché “patria” mi spinge a qualche considerazione per lo stupore negativo che ha suscitato in me.
In tutta la prima parte lei parla male del concetto di patria, e ci torneremo. Poi sono arrivato alla proposta di sostituzione, dove dice “pensarsi come Matria consente di sradicare questa prospettiva (che ha portato a “tragedie diverse, tutte non augurabili”), perché la madre nell’esperienza di ognuno di noi non è un soggetto imperativo, ma è la prima cosa vivente scorta, la prima amata. Simbolicamente intesa, la maternità è un’esperienza relazionale elementare, perché nutre e si prende cura. Prima di suscitare timore, suscita amore. Prima di evocare autorità, evoca gratitudine”.
Lì ho pensato che, ecco, anche lei ha voluto pagare il suo tributo al polically correct (d’altronde è proprio di questi giorni il G7 sulle donne a Taormina). Quello che non capisco è il passaggio dalla prospettiva psicologica e affettiva, da cui lei parte, a quella storica e politica a cui arriva. Cioè? Il principio femminile eviterebbe guerre e persecuzioni? La conduzione femminile dei popoli eviterebbe quelle tragedie? Dunque, vediamo un po’: uno dei popoli più guerrafondai e colonialisti, l’Inghilterra, risulta avere una regina e un primo ministro che mantiene armi e soldati in varie guerre del mondo, come in Siria, ed ha appena annunciato di voler istituire un gruppo speciale per combattimenti nei Balcani occidentali (ops, ai nostri confini). Gestirà la Brexit, vittoriosa proprio in conseguenza dei troppi migranti nel suo paese. La Thatcher, sua collega di qualche anno fa, scatenò una guerra contro l’Argentina per alcune isolette semidisabitate in mezzo all’Atlantico e smontò diversi diritti sociali delle classi povere. E se nel paese più guerrafondaio del mondo, gli Usa, avesse vinto Hillary Clinton, al posto dell’incapace e ondivago miliardario che hanno invece eletto, quasi certamente ora avremmo una guerra con l’Iran, o la Corea o forse la Russia, che la detentrice del “principio femminile” stava già progettando. In Europa nessuna ha difeso gli interessi della matria come la tedesca Merkel, arrivando ad utilizzare euro, banche e istituzioni continentali per gli interessi precipui della Germania a discapito di paesi mediterranei come la Grecia, distrutta dalla mutter, e, ops, ancora noi (ricorda la vertigine dello spread tedesco?). Se vuole continuo con esempio di “pacifiche” donne a guida della matria, ma meglio di no.
Veniamo alla prima parte dell’articolo. Lei dice: “La prima ambiguità è nelle parole stesse: la patria non è una terra, ma una percezione di appartenenza, un concetto astratto, tutto culturale”, quella prospettiva che porta a dire “di chi sei”. È proprio così, ma chissà perché per lei questo è negativo. Provi a togliere a un bambino la percezione dell’appartenenza a un padre e a una madre: lo distruggerà. La patria è il luogo che i nostri antenati, direi uomini e donne insieme, hanno costruito e consegnato a noi, così com’è oggi. È perfetta? No, sempre perfettibile. Ma difficile negare che comunque di un’eredità si tratti. E di una terra, che volenti o nolenti ci definisce — e ci piace che ci definisca.
Perché questo è cattivo? E come se lei ci chiedesse di ospitare qualcuno in una casa che nessuno ha costruito né conservato per noi fino ad oggi. Come si fa a ospitare qualcuno senza casa? Poi dice: “Concetto di patria? Averlo caro del resto non ha alcuna attualità; appartiene a un mondo dove il diritto di sopraffazione e la disuguaglianza sociale ed economica erano voci non solo agenti, ma indiscutibilmente cogenti”.
Questa è una visione totalmente falsa. Dovrebbe guardare meglio alla storia da cui viene il nostro concetto di patria, d’altronde oggi molto annacquato. Il suo collega scrittore spagnolo Fernando Aramburu dice che il concetto di patria sta tornando di moda: sbagliato anche questo. L’associa al concetto di populismo, che è il modo ambiguo degli intellettuali di accusare in malafede chi prova a riscoprire oggi la sua appartenenza a un popolo, una storia, una cultura. Ma non si chiede perché ciò comincia a succedere? È che qualcuno intuisce quali sono i veri nemici oggi: la globalizzazione, la multiculturalità, la cancellazione dell’identità che arriva fino alla famiglia, al sesso, alla religione. E se tenta un’altra strada, gli vien dato del fascista.
Guardi che la cancellazione delle patrie è un progetto, un gioco pericoloso del capitalismo internazionale che lei vorrebbe forse combattere ma di cui si mette, spero ingenuamente, al servizio. A cosa crede che serva l’emigrazione massiccia, se non a creare anche da noi masse di lavoratori sottopagati, stranieri prima e poi anche italiani, che si dovranno adeguare? A questo proposito, infine, supponendo che lei stia già pensando che io sono xenofobo e populista, le racconto un episodio sulla sua frase ironica: “Gli emigrati economici hanno il dovere morale di coltivare e manifestare a chi è rimasto a casa un desiderio di ritorno, pena il passare per rinnegati”. Non sopportando di fermarmi all’elemosina alla signora che incontravo ogni giorno davanti al mio supermercato, ho voluto presentarmi e conoscerla, poi abbiamo invitato a cena lei il marito e la figlia, e siamo ancora amici. Una sera le ho detto che l’aiuterò sempre come posso ma che la cosa migliore che mi sentivo di augurarle è di trovare condizioni migliori per la sua famiglia e il suo paese, la Nigeria, in modo che potessero tornare a casa. Mi ha ringraziato commossa, non per “dovere morale”.
Per questo mi dispiace che un’ottima scrittrice si sia accodata al pensiero unico, che ho definito per comodità politically correct, a cui, mi pare, sfugge la realtà di oggi, e non in buona fede. Le ricordo per chiudere ciò che diceva don Milani, non certo un populista, un nazionalista né un amante dei confini: “La lotta di classe quando la fanno i signori è signorile. Non scandalizza né i preti né i professori che leggono l’Espresso”. Cordiali saluti.