Che l’Italia resti fuori dai Mondiali di calcio è un fatto drammatico quanto la presuntuosa saccenteria di chi non sa ciò di cui parla ma imperversa a sproloquiare dappertutto, vomitando contro i bersagli del momento il livore che gli avvelena l’anima; quanto è drammatica l’assoluta mancanza, nell’opinione comune, del senso dell’imponderabile: nella vita come nel calcio. Non si fa in tempo a piangere: c’è subito un opinionista da ascoltare o uno sfottò da postare; né c’è tempo per perdere: la mattina successiva è già l’ora dei bilanci. Allora saranno pure milionarie ma le lacrime dei calciatori sconfitti rimangono gli unici spruzzi di verità che non ci annegano fra le chiacchiere violente di chi non ha mai allenato né pianto. 



Le lacrime degli sconfitti, quelle inesorabili, non si annacquano con il conforto di uno sfogo. Ti inchiodano eternamente a un destino. Un tennista immenso come Andre Agassi ammetteva, a proposito della vittoria più prestigiosa: “Io però non credo che Wimbledon mi abbia cambiato. Anzi, ho la sensazione di essere stato messo a parte di un piccolo, ignobile segreto — vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo. Nemmeno lontanamente”. 



I greci ne sapevano qualcosa, loro che inventarono le Olimpiadi ma non la menzogna dell'”importante è partecipare”. Era la vittoria che contava, al punto che la personificavano in Nike: un dono, più che un risultato. Concessa dagli dèi, le sue ali potevano ombrarsi per la tragedia sempre incombente, e infatti l’Iliade si chiude, anziché sulla vittoria dei greci, sul funerale di un troiano: tanto la sconfitta è più profonda della vittoria. Chi ha tifato per Ettore leggendo l’Iliade, l’eliminazione dell’Italia la conosce già, e perciò la riconosce. Perché il senso dell’apocalisse è per lui assoluto: un pugno di terra scagliato in bocca, un’asta che sul più bello trapassa la gola, un uomo preso e giocato dal fato. 



Chissà Omero come avrebbe raccontato Italia-Svezia. Una volta scrisse che l’eroe greco Diomede scese sul campo di battaglia col fuoco dell’audacia che la dea Atena gli aveva acceso in cuore. Era lei a spingerlo in mezzo alla mischia, a dargli gambe e forza per abbagliarlo di gloria. E mentre greci e troiani combattevano, sull’Olimpo erano altre battaglie fra dèi, con Atena a portarsi via Ares affinché Diomede corresse incontenibile: quel giorno non ce n’era per nessuno. Quando il troiano Pàndaro gli colpì la spalla con una freccia, fu ancora lei a risollevarlo e a risvegliargli il furore: “non senza qualche nume infuria così, qualcuno vicino / gli fu degli immortali, fasciato le spalle di nube, / e sviò il dardo rapido che già lo colpiva. / Io gli ho lanciato un dardo, e l’ho colto alla spalla / destra, dritto attraverso la piastra della corazza: / ero sicuro d’averlo travolto nell’Ade. / Invece non l’ho ucciso. Ah un dio irato certo è!”. Quando poi l’eroe infierì nientemeno che contro Enea, e con un masso “gli fracassò il cotila e gli spezzò due tendini, / la pietra scheggiata stracciò la pelle: e l’eroe / cadde, e rimase in ginocchio, puntando la mano forte / contro la terra; un’ombra buia gli coprì gli occhi”: ecco, in quel momento, Enea sarebbe senz’altro morto “se non lo vedeva subito la figlia di Zeus Afrodite”, se non lo avesse nascosto dalle frecce nemiche sotto il suo mantello. 

C’è dell’epica nel calcio. Ma a noi mancano i poeti epici. Noi abbiamo i giornalisti e — peggio ancora — i social. Abbiamo commenti e non abbiamo dèi. Non pensiamo che forse qualche Odino con le sembianze di Johansson abbia fatto rimbalzare un innocuo pallone sullo stinco di un De Rossi che passava di lì per caso. Non crediamo che sull’Olimpo chissà quali Moire abbiano filato 37 tiri e 70 per cento di possesso palla mentre un mago Atlante avvolgeva di nebbia l’area di rigore affinché la sconfitta facesse più male. E che Atena, come toglieva le frecce dalle spalle dei suoi prediletti, così abbia potuto deviare la palla sul tacco di un Olsen qualsiasi e magari adesso si diverta a concedere a Immobile gol a valanga dalla stessa posizione, senza ninfe camuffate da Granqvist in giro fra le porte vuote. Noi non immaginiamo che Eolo possa aver soffiato per puro capriccio sul destro di Florenzi a due metri dalla linea, o che l’oracolo di Delfi possa aver atteso settant’anni l’appuntamento con Ventura per stritolarlo al crocicchio fra Stoccolma e Milano. 

Non ci crediamo, e non potevamo crederci, neanche l’altra sera. Ma “la cosa più segretamente temuta accade sempre”. Siamo qui senza dèi, senza poeti e senza mondiali, a menarcela su Tavecchio e la rifondazione dei settori giovanili. Neanche Maradona uscisse da una scuola calcio anziché dalla mano de Dios, o Leopardi da un corso di scrittura creativa anziché dalle Muse. A quali sciocchezze siamo arrivati, da quando ci è estraneo il mistero: perfino a pensare che il talento, la qualificazione, la vita siano frutti di un lavoro. Non c’è eroe e non c’è campione senza grazia olimpica, non c’è verso senza Muse né gol senza destino. Gli dèi ci filano sventure, solcandole nelle lacrime di Buffon e di Belotti, per ricordarci che la loro vittoria avrebbe riscattato le nostre sconfitte, e invece adesso la loro sconfitta somiglia alle nostre. È così tremendo guardarsi allo specchio, quando gli eroi piegano i ginocchi. Perché un’estate mondiale è una birra ciclica che ristora il fallimento dei giorni, ma un’estate smondialata ha lo stesso sapore del fallimento dei giorni. Sono due disfatte che si incrociano e si guardano in faccia, tolte le maschere di Bonucci, le armature di Patroclo e le nostre velleità da ct del baretto. Ulisse seppe montare un cavallo di legno senza istruzioni Ikea. Ed Enea, dopo la più bruciante delle sconfitte, fondare Roma. Ma chi non legge l’Iliade non sa nulla di calcio.