La mostra che il Complesso del Vittoriano di Roma dedica al pittore francese Claude Monet (1840-1926), dal 19 ottobre del 2017 all’11 Febbraio del 2018, è uno degli appuntamenti più interessanti nel calendario delle prossime esposizioni in Italia. Si tratta di un tributo “filologicamente” copioso e attento a uno dei più grandi artisti degli ultimi due secoli, insieme precursore e fautore dell’Impressionismo, ma forse anche in grado di imprimervi gli elementi necessari per un proprio superamento.
Monet ebbe il merito di intuire che a partire dalla seconda metà del XIX secolo il lavoro delle arti sarebbe stato inevitabilmente superato dalla tecnica nel proporre rappresentazioni della realtà legate soltanto al vincolo della congruenza descrittiva. In Monet è centrale lo sforzo di fare della pittura un punto di osservazione privilegiato, alimentato, sì, dalle suggestioni sensoriali, ma destinato a eternarle con la giustapposizione di molteplici istantanee progressive. L’idea dell’arte come riproduzione didascalica è finita per sempre.
Esemplare in tal senso il ciclo di cinque raffigurazioni diverse della celeberrima “Cattedrale di Rouen” (1894), alla quale probabilmente non siamo in grado di aggiungere tutta una serie di lavori preparatori che sarebbero di enorme interesse e che non è da escludere, invece, siano finiti dispersi tra le bozze e gli schizzi che spesso i pittori prolifici disseminano e disperdono.
Monet è contemporaneo del naturalismo in letteratura, ma l’impressionismo ha coordinate concettuali diverse, anche quando scende nelle stamberghe o si sofferma sui paesaggi affettivi della borghesia ottocentesca. All’impressionismo non interessa rimuovere il soggettivismo, al contrario: riconosce a propria istanza fondativa l’esigenza imprescindibile di scendervi a patti.
L’interazione tra l’originario motivo naturalistico borghese e gli sviluppi che Monet vorrà portare avanti servendosi, più che della figura, della luminosità e del colore, mostra i primi risultati significativi con la “Spiaggia a Sainte-Adresse” (1867), che ancora è ben distante dai lavori del decennio successivo. Eppure, un clima trasognato prende poi morbidamente possesso della scena, con la sua sabbia chiara, i suoi barcaioli che chiacchierano ingannando il giorno e le barchette che fanno piccola folla d’ombre.
Il lavoro manifesto della decade a venire è “Impressione. Levar del Sole”, la rivoluzionaria immagine simbolo del periodo storico. Lo sguardo è prisma della suggestione, che così rielabora ciò che avviene davanti agli occhi: un rosso maculato squarcia il cielo come una pagliuzza di brace e fa eco di piccoli fiammiferi sulla superficie del mare. I barcaioli ormai non hanno chiacchiere da fare, sono a propria volta macchie che si scrutano.
È motivata acquisizione comune che Monet non abbia d’altra parte voluto fermarsi alla fama che gli garantiva la diffusione dell’impressionismo e che abbia proseguito un suo responsabile, forte, personale, percorso di indagine alla scoperta della luce. Per un pittore di quei decenni, la riconoscibilità e la riuscita economica non sono la stessa cosa e le maggiori soddisfazioni forse giungono per Monet alla fine degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta. Eppure è parimenti sostenibile che Monet abbia dedicato tutta la sua ricerca all’impressione che in animo lascia la luce quando impatta l’oggetto. Una profonda, irrinunciabile, intrinseca, coerenza passa attraverso le opere giovanili e quelle senili.
L’apoteosi di questa continuità metodologica sembra potere essere considerata “San Giorgio Maggiore al Crepuscolo” (1908), vero e proprio affresco veneziano del primo Novecento, che in parte anticipa le lunghe sperimentazioni sulle ninfee, sui pontili e sui laghetti. La laguna sfida l’immagine con la spuma rosa del tramonto e San Giorgio, asciugata dal meriggio che si chiude, rattrappendo le figure, resta a immortale testimonianza di uno sguardo sul mondo che in ogni istante cattura l’essenza profonda della sensazione.