Era destino che andasse a finire così: dal Papa – ch’è tracciabilità di Cristo in terra – al sottoscala statale del carcere. Nessuna novità. Agli estremi ci sta la segnaletica: inizia con “Padre”, finisce con “Male”. Padre è apertura di vita: complemento di appartenenza. Il male è la torsione dei sogni primordiali del padre: nessun padre sogna la perdizione per il figlio suo. Eppure accade, per scambio di paternità: alle logiche di casa si preferisce la logica spassosa di ciò che pare allegria, assoluta libertà. L’autore del Padre nostro, Cristo, ha lasciato libertà di scelta: la libertà è condizione prima e primordiale della preghiera fatta come si deve. Dalla fiducia al timore.
Mi sono seduto davanti a lui, il Papa, con un pugno di parole dipinte sulle labbra: padre, nome, regno, volontà. Ho aggiunto pane, debiti, tentazione, male. Più una domanda: “Che senso ha pregare ancora il Padre nostro?”. Parole che solo in apparenza danno la sensazione d’essere banali: custodiscono, invece, una quasi-grammatica infrasettimanale. Assieme, quasi fossimo in un’officina, le abbiamo smontate: spolverate, riverniciate. Pregate. Poi, com’è di tutte le cose che non ci appartengono, le ho riportate da dove le avevo prese: in carcere, tra i miei funamboli di galera. Volevo vedere che effetto producevano in quanto a vita: mi erano parse credibili mentre uscivano dal bucato dal Papa. Ho voluto testarle: è solo la vita a decretarne la vitalità o l’inerzia. Tornato in galera le ho affidate a Marzio ed Enrico, due storie ferite a me assai care e familiari. “Che ne dite? Stanno in piedi, secondo voi?” Mi sono fatto ospitare nel loro raccontarsi.
Essere padre, in carcere, è un dramma: la sottrazione di paternità è affare di lutto. La santificazione del nome è un dilemma: “Ho infangato il buon nome di casa”. Il regno, forse, era quello sbagliato: il regno del male, invece che il sogno trasmesso dai padri. Cercare pane quotidiano, in galera, è sopravvivere. Più del pane è l’aggettivo a incutere timore: “quotidiano”. Ogni giorno, tutte le notti: chi, con me, ha commentato quelle parole, porta incise decine di migliaia di notti in gattabuia. Tutte storie di debiti, con il sovrapprezzo d’essersi sentiti abbindolati, forse, da una tentazione disegnata dal genio del male: “Sono stato fregato”. Alla forma passiva: “Mi sono lasciato fregare”. Un Padre-nostro di carne e sangue.
Francesco, per me, ha fatto bucato di questa preghiera che porto in tasca da stagioni immemori. Loro, i miei due giamburrasca, si sono rimessi addosso i vestiti lavati e ne hanno testato la valenza. Il guadagno? Aver ri-scoperto il fatto più strano: che Dio ci (ri)guarda. Nel doppio significato del verbo: ci guarda una seconda volta, dopo il tracollo. Nell’altro: è di nostra pertinenza, fa sentire parte-in-causa. Il Padre ci (ri)guarda, il Male ci spia: è il contrario. Il Padre nostro non si voleva diventasse materia numismatica come le monete: in certi cuori sono parole che ancora accadono, fanno accadere. Parole di vita.
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Papa Francesco, “Quando pregate dite Padre nostro”, Rizzoli-Lev 2017, 144 pp. Il libro è lo sviluppo del programma che Tv2000 sta mettendo in onda in questi mesi.