“Sette mesi, ogni anno, davanti a un prato. Sette mesi, ogni anno, ormai da trentadue anni… Non bastano trent’anni a capire un paesaggio”. Chi diceva così, nel 1934, era Arturo Tosi, uno dei maggiori paesaggisti del Novecento. Oggi un po’ dimenticato, Tosi (Busto Arsizio 1871-Milano 1956) ha avuto ai suoi tempi una fortuna critica tardiva — solo dopo i cinquant’anni comincia ad affermarsi — ma intensa, a cominciare dal primo premio per la pittura vinto alla Quadriennale di Roma del 1931: un premio leggendario di centomila lire, in un’Italia che sognava di poter avere mille lire al mese.



Tuttavia non è per questo premio che oggi l’artista ci interessa. In un secolo drammatico come il Novecento, Tosi ha dipinto una natura non sconvolta e non sofferente, luogo di serenità spirituale. Da dove attingeva quel senso di speranza, lui che pure aveva avuto le sue sventure? — aveva perso la figlia Margherita diciottenne; per un anno aveva pianto come disperso in guerra un figlio, che invece era prigioniero; nel 1944 gli avevano bruciato lo studio con quasi tutte le opere perché nel 1942 aveva vinto il premio Mussolini di pittura, anche se lui non si era mai occupato di politica.     



Prima di rispondere, o tentare di rispondere, a questa domanda, vediamo più da vicino il suo lavoro. Tosi è stato uno dei grandi pittori-architetti del Novecento, un protagonista negli anni fra le due guerre della ricostruzione dell’immagine che era stata troppo sezionata e scomposta nell’età delle avanguardie. La sua pittura non è descrittiva, ma costruttiva e rivela una vocazione da romanico prealpino. Dopo la stagione giovanile Tosi ha dipinto esclusivamente paesaggi e nature morte, ma in entrambi i casi ha costruito forme chiuse, come se davanti a lui non si stendesse lo spettacolo volatile e sfarfalleggiante del mondo ma una massa solida e densa, su cui occorreva tracciare i perimetri di terre, colline, cieli, laghi. Tracciarli, si intende, non col filo a piombo o col filo del bisturi, ma con una pennellata altrettanto densa che di quelle terre, di quelle colline, di quei cieli facesse sentire tutta la sostanza. 



La sua costruzione non si imposta infatti su un teorema astratto, non procede per diagrammi e planimetrie, ma esprime la corporeità delle cose sigillandola come può, in pezze e ritagli approssimativi, in una geometria che non è mai pienamente geometrica. Il suo paesaggio ha appunto un corpo, anche se suggerisce sempre un senso di spiritualità. E la corposità di una striscia di terra o di una casa, come di un color rubino e di un’ocra gialla, danno concretezza e peso allo spettacolo della natura. “Mio ideale d’arte: l’equilibrio tra la materia e lo spirito” dichiara. 

A differenza degli impressionisti, i suoi quadri non nascono dalla sensazione di un attimo, ma da una visione assimilata lentamente, da un guardare e riguardare, da una rivelazione che giunge dopo una lunga meditazione su luoghi consueti e familiari. Ciò che gli interessa non è vedere cose nuove, ma vedere in modo nuovo. 

Per lui, dunque, la pittura non dipende da una impressione immediata, ma da una ricerca del senso profondo della realtà. Comprende che l’esperienza della sensazione, pur necessaria, non basta. Occorre poi una lenta meditazione, che porti (magari mesi, anni dopo) a un’intuizione finale, perché la natura non è solo ciò che appare. Ha un significato che non si rivela a prima vista, e il cui senso ultimo si racchiude in una dimensione spirituale. Il suo, insomma, è un paesaggio che è in pace e dà pace, anche se pace non significa affatto immobilità o mancanza di vibrazioni, di trasalimenti, di emozioni. Al contrario.

E torniamo alla domanda iniziale. Potremmo dire che la speranza a cui accennavamo deriva a Tosi da un vivo senso religioso, lo stesso che gli fa dichiarare: “Sento Gesù Cristo come l’ideale umano più alto di bontà, di umanità e di giustizia. Nessun’altra religione ha in sé un elemento così grande e così puro. Non c’è ideale più alto da raggiungere, dimentichiamo troppo questo ideale trascinati come siamo dalla passione. Verrà il momento che tutti si convinceranno che se il mondo vuol tornare sulla retta via dovrà tornare ad ascoltare il suo Verbo. Le nazioni sono in decadenza quando non sentono più la fede in Cristo”. Tosi scrive queste cose nel 1942 a don Giovanni Rossi della Pro Civitate Christiana di Assisi, che stava conducendo presso artisti e intellettuali un’inchiesta sulla figura di Cristo nella società contemporanea. Ma le stesse parole le scrive ancora più chiaramente nella sua pittura, dove ogni cosa, da un prato a un povero piatto di frutta, ha un corpo che fa pensare all’anima.

“Tosi e Sironi: due maestri, due amici”, mostra a cura di Elena Pontiggia. VS Arte, fino al 20 gennaio 2018. Informazioni su: http://vsarte.it/