“Così come siamo, coraggiosi e orgogliosi e forti, se avessimo una fede, un Dio, niente potrebbe fermarci. Ma non avevamo nulla: abbiamo dovuto imparare tutto e vivere soltanto per l’onore che ha i suoi cedimenti”, scriveva Albert Camus negli appunti preparatori del Primo uomo, l’ultimo suo romanzo, pubblicato postumo nel 1994, a trentaquattro anni dalla morte. Quest’anno, in cui a giugno è ricorso il settantesimo anniversario della pubblicazione di un altro grande romanzo di Camus, La peste (nuova traduzione, Bompiani 2017), può risultare utile leggere (o rileggere) anche Il primo uomo. Romanzo sulla tradizione, nella forma di un grande interrogativo sulla possibilità del ritorno all’origine per rinascere spiritualmente prima di morire, Il primo uomo si chiude con il ritratto finale del protagonista Jacques Cormery: egli, non avendo avuto un padre (morto sulla Marna) e quindi nemmeno “una tradizione che gli fosse stata trasmessa”, non aveva avuto nulla e aveva vissuto come se la propria “insaziabile voglia di vivere” non potesse trovare risposta se non nella “nuda necessità” di un “mondo sconosciuto” nel quale egli “non desiderava nessun posto”. 



La vita nuova della quale parla Camus è dunque una condizione necessitata a rimanere sganciata dalle sorgenti ma, ciononostante, non equivale a proporre nel futuro qualcosa di non vitale: la mancanza del padre significa infatti, in Camus, non la giustificazione di una libertà assoluta alla Jean Paul Sartre, ma l’urgenza di ritrovarlo andando sulla sua tomba per liberarsi dall’illusione di bastare a se stessi. C’erano allora, in Jacques Cormery, “quei gesti, quei giochi, quell’audacia, quella foga, la famiglia, la lampada a petrolio e la scala buia, le palme nel vento, la nascita e il battesimo nel mare”, ma “c’era anche la parte oscura dell’individuo”, nella quale una ferita si è ingrandita perché ha desiderato una risposta “come quelle acque profonde che sottoterra, dal fondo dei labirinti rocciosi, pur non avendo mai visto la luce del giorno, riflettono un bagliore smorzato, venuto chissà da dove”.



Il cristianesimo, in fondo, consiste nel vivere da uomini “del giorno dopo” che hanno guardato Gesù negli occhi, ma può essere solo un provare (o provare per la prima volta o riprovare) a vivere, perché la vita non potrà essere mai più la ripetizione di quella precedente. A Camus non capitò di sentire qualcosa di decisivo di fronte a Cristo e, tuttavia, sapeva che la risposta al problema della vita deve, in un modo o nell’altro, determinare un nuovo inizio. Ci può quindi, secondo lui, essere disperazione ad amare qualcuno che non crede in questa possibilità e che si immagina il proprio futuro come una ripetizione dei gesti del passato. Eppure Jacques Cormery voleva bene, si legge nell’ultima pagina del Primo uomo, a una donna “intelligente e superiore” che amava “tanto l’amore”, ma che, quando era tornata dal viaggio nel proprio paese d’origine, non riusciva più a vedere l’amore nel presente: “E allora, col sangue in fiamme, le veniva voglia di fuggire, fuggire in un paese dove nessuno invecchiava e moriva, e la bellezza era imperitura, e la vita sempre selvaggia e scintillante, un paese che non esisteva: al ritorno piangeva fra le sue braccia, e lui l’amava disperatamente”.



L’ultimo gesto di Jacques Cormery si muove al ritmo di un cuore che batte nel presente contro il nichilismo e, come Gabriel Marcel ebbe a dire di Nietzsche, forse anche Camus si è sforzato di essere cristiano, tentando una strada per la trasmissione delle sorgenti nel Novecento.