Prosegue “Mediterraneo, mare di cristallo”, il taccuino del viaggio marittimo-letterario compiuto dall’autore (ndr).
Un popolo senza terra
Da Corinto ci siamo diretti allo Stretto. Mentre scendo dal pullman, soffia un vento fresco.
Un balcone in ferro sovrasta lo stretto, che è in pratica un corridoio lungo 6 chilometri scavato nella roccia. Il Mediterraneo, entrandovi, assume, con l’immobilità delle sue acque, sfumature bluastre.
Ogni tanto si assiste a uno spettacolo divertente: una nave di grande stazza viene trascinata da una barca più piccola; tutte e due procedono lentamente, lasciando all’osservatore il tempo di scegliere la migliore angolazione per scattare una fotografia.
Il taglio dell’Istmo era già stato progettato da Periandro senza che i lavori venissero mai intrapresi. Più tardi fu messo a punto da Demetrio Poliorcete un progetto, anch’esso mai realizzato. Pensarono a un taglio del canale anche Giulio Cesare e gli imperatori Caligola e Adriano. Verso il 40 d.C. Caligola inviò degli esperti all’Istmo per studiare la situazione: un rapporto di tecnici egiziani aveva portato a conclusioni negative, poiché avevano scoperto che, essendo il livello del golfo di Corinto più alto di quello del golfo Saronico, il taglio del canale avrebbe rischiato di sommergere l’isola di Egina. Il tentativo più ambizioso fatto nell’antichità per tagliare l’Istmo fu quello promosso da Nerone nel 67 d.C. Per la durata di più di tre mesi lavorarono migliaia di operai: le tracce ancora visibili di questo lavoro dimostrano che il tracciato previsto seguiva, come quello moderno, l’asse più stretto dell’Istmo.
Il taglio era stato incominciato simultaneamente dai due lati, e gli operai si sarebbero incontrati al centro. La morte di Nerone interruppe i lavori.
Il canale moderno, iniziato nel 1881, fu portato a termine nel 1893.
Se gli antichi avevano tentato invano di tagliare l’Istmo, il problema fu da loro risolto con la costruzione di una strada selciata, il diolkos, che recava profonde scanalature parallele: su esse si muoveva un veicolo munito di ruote, sopra il quale erano trasportate le navi, precedentemente alleggerite di ogni peso. Il termine diolkos deriva dal greco antico dielkein, “tirare attraverso”.
Mentre le brezze salmastre si incanalano in questo corridoio artificialmente scavato nella terra rocciosa, guardo la striscia cerulea. Ecco la sirena, una nave da crociera sta arrivando, rallenta, si ferma, viene attaccata a una nave più piccola per essere trascinata nello stretto corridoio.
Leggo sul lato il nome Hercules: la nave da crociera che ora vedo è quella dove si svolge la storia narrata nel romanzo di Jabra Ibrahim Jabra, La nave.
Su questa nave viaggiano diversi passeggeri, tra cui palestinesi, iracheni e libanesi, che vivono, come in un microcosmo, gli uni con gli altri, portando con sé, in una tormentata fuga dalla realtà, la propria terra, da cui mai hanno divelto le proprie radici: Beirut, Baghdad, Gerusalemme. Un sentimento che Jabra, professore di letteratura inglese, provò quando abbandonò la propria terra nel 1948, ovvero Betlemme, dove era nato il 1920, per andare a vivere in Iraq.
La nave Hercules era partita da Beirut e aveva già toccato vari porti del Mediterraneo: Atene, Alessandria, Heraclion. Il protagonista del romanzo, Isam Salman, sta fuggendo: fugge anzitutto da Luma, dalla donna che ama ossessivamente, sposata a un suo amico medico.
“Non sapevo che Luma, Luma in persona, la povera Luma che pianse tante notti, che aveva tradito per me la sua gente, Luma ridente, la cui immagine scorreva nei miei occhi, sarebbe stata qui, su questa nave. Diecimila tonnellate di stazza, greca, con i suoi due grandi fumaioli in gara con l’orizzonte, che tesse e poi disfa in gara con la sua rete tra Beirut e Alessandria, Eraclion, il Pireo, Napoli, Genova e Marsiglia.
Un gioco pericoloso! Sono qui per fuggire. Sono qui per tanti motivi; il più importante è che non potevo fare di Luma il mio mare, la mia nave e la mia avventura. (…) Quel che c’era tra me e Luma era un amore che né le parole, né l’istinto, né la ragione possono definire. Una forma di esistenza e di non esistenza. Come se avessi in testa due occhi, un naso, una bocca, ma non vedessi, non avessi l’olfatto e non parlassi. E Luma, ecco Luma con il mare, con Beirut, con giugno, con i passeggeri della seconda classe, con suo marito. E se è con suo marito, a cosa servono il mare, Beirut e tutti questi passeggeri allegri e chiassosi?”
L’Hercules ora sta passando davanti a me, lentamente, lungo il canale di Corinto. Mi trovo sulla balaustra intento ad osservare la nave da crociera, sul cui ponte vi sono molte persone che ammirano i muri di roccia ben levigata, quasi sfiorabili con le dita della mano.
Dalla balaustra del ponte si sporge anche Sam, che pensa alla sua terra, alla sua città, Gerusalemme, così lontana, da cui fuggì nel 1948:
“All’inizio del maggio 1948 Gerusalemme Nuova era un campo di battaglia tra Arabi ed Ebrei. L’esercito britannico non era ancora partito, anche se aveva rimesso la questione agli Arabi e agli Ebrei fingendo “completa” neutralità. I combattenti arabi avevano garantito il controllo della Città Vecchia e si erano già concentrati in alcuni quartieri della Città Nuova, specialmente nella zona tra Talibiyya e l’Alta Baqa’a dov’era la nostra casa.
Vicino c’era un grande pezzo di terra pieno di pini dove non potevamo costruire per mancanza di soldi. Inoltre c’era uno dei più grandi campi militari britannici in Palestina. Pensavamo che l’esercito si sarebbe ritirato il 15 maggio e che il campo, con tutto quello che c’era dentro, sarebbe stato consegnato ai combattenti arabi. (…) I difensori e i combattenti erano in continua attività. C’erano combattimenti nella parte occidentale di Gerusalemme e su di essi avevamo notizie contrastanti. Comunque, eravamo in attesa del 15 maggio, il giorno in cui l’esercito britannico si sarebbe ritirato definitivamente e gli eserciti arabi sarebbero entrati da sud, da est e da nord e avremmo portato a termine il compito di ripulire Gerusalemme in due o tre settimane”.
Gerusalemme è la città dove il protagonista aveva vissuto la sua giovinezza, da bambino, andando tra gli ulivi delle colline circostanti a sentire narrare le antiche storie: Gerusalemme diventa, simbolicamente, il grido della terra che si estende nelle anime di tutti gli uomini cacciati o fuggiti dalla propria patria.
“Il giorno stabilito si avvicinava. Il nostro morale era alto e le comunicazioni con le regioni arabe erano buone. Fummo, però, sorpresi dai movimenti dell’esercito britannico quando la mattina presto del 14 maggio, vedemmo muoversi i soldati con le vetture e gli equipaggiamenti un giorno prima di quanto stabilito. Subito ci rendemmo conto che c’era qualcosa di sospetto: infatti l’esercito si stava ritirando e consegnava la Città Nuova agli Ebrei, passo dopo passo, sotto la sua protezione. Improvvisamente ci accorgemmo che l’avanzata ebraica da ogni direzione riempiva il vuoto lasciato dagli inglesi.
Fayiz e io uscimmo con la macchina e facemmo un giro per le strade di Baqa’a. Con noi c’erano dei giovani del vicinato. In macchina c’era una mitragliatrice e alcune bombe a mano. Ci passò vicino un gruppo di combattenti su un camion proveniente da Talibyyia, che andava velocemente in direzione del campo militare britannico. Le strade erano deserte e il rumore delle bombe e gli spari risuonavano da ogni parte. Non sapevamo esattamente che cosa stava succedendo intorno a noi. Il distretto di Tauri, alla periferia della città, era in mano araba e di fronte c’era il distretto ebraico di Montefiore. Di fronte, dall’altra parte della valle, verso la strada che entra in città, si ergono le mura di Gerusalemme e la fortezza del profeta David da dove i combattenti facevano fuoco con le loro bombe sul Montefiore. La tragedia della città, come la tragedia dell’intero paese, era che gli ebrei nel corso degli anni, senza che nessuno se ne rendesse conto, avevano costruito, nelle colonie agricole tra i distretti arabi, dei centri preparati alla guerra secondo un preciso piano militare, in grado, all’occorrenza, di interrompere le comunicazioni”.
C’è ancora chi muore a Gerusalemme, c’è ancora chi muore per vivere a Gerusalemme: c’è chi vive per morire a Gerusalemme, perché non ne bastava una di Gerusalemme; ne occorrevano due: una per vivere, un’altra per morire. La prima è celeste, l’altra terrena. L’una per Dio, l’altra per gli uomini.
Il protagonista e un suo caro amico ora stanno in silenzio, come sospesi tra la vita e la morte, tra la Gerusalemme celeste e la Gerusalemme terrena, dopo che l’amico fraterno è stato mortalmente ferito da alcuni soldati ebrei. “Dissi a me stesso: ‘Si muore solo una volta se viene e forse non verrà. Li abbiamo colpiti… tra poco saremo a Sal Wan’. Ma dopo poco mi resi conto, sbalordito, che Fayiz camminava lento e si lamentava. Era rimasto indietro e quando mi voltai lo vidi che giaceva a faccia in giù sui sassi e i pruni. Il sangue scorreva sulla terra e sulla mitragliatrice gettata di lato. Gridai: ‘Fayiz, Fayiz!’ Tornai da lui e lo voltai sulla schiena. Mi trovai a gridare: ‘No, no, per Dio, non è possibile…no…'”.
Si combatte ancora per Gerusalemme, si combatte ancora.
Per tenere in pugno la terra dove poter vivere camminandoci sopra, e dove poter morire, venendoci seppelliti sotto: questo è il pensiero costante che domina l’animo del protagonista mentre trasporta il cadavere del suo amico.
Il silenzio, la morte, la sete di vendetta. E la voglia di ritornare a casa, alla propria terra, alla propria patria: questa è l’onda che agita l’anima del protagonista de La nave, mentre vedo passare, lentissimamente, l’Hercules, che ha navigato lungo il Mediterraneo, lungo rotte di uomini che ritornano a casa.
“Due matti in un deserto di morte. Quando me lo tolsi dalla schiena per riposarmi, giurai di tornare in qualche modo come invasore, come ladro, come assassino, tornare anche ucciso. Lo giurai su una roccia. La notte fu lunga e odiosa. All’alba passò un gruppo di combattenti. Nel pomeriggio di quel giorno consegnai il martire ai suoi insieme agli altri martiri. Tra pianti e singhiozzi placai il dolore con un giuramento che da più di quindici anni ricordo ogni giorno”.
Martiri per la propria terra. Il nostalgico desiderio di poter ritornare a Gerusalemme, alla propria terra, da dove si è fuggiti.
Il medesimo desiderio per il nostos, il ritorno, che prova Ulisse, dopo aver navigato lungo il Mediterraneo, verso la sua piccola isola, la sua terra, che sempre si estendeva nella sua anima.
“Lo stretto di Corinto è dietro di noi. Il mare greco ci avvolge nella notte di luna pieno di leggende. Leggende d’amore e morte. Il profumo della terra attrae Ulisse errante tra i pericoli del mare. Ci deve essere un ritorno, ci deve essere”.
Ormai l’Hercules è già lontana, già uscita dallo stretto di Corinto.
Rimango ancora qualche minuto, in raccoglimento, per ascoltare le brezze marine, e poi salgo sul pullman per dirigermi a Epidauro.
(11 – continua)