Importante iniziativa alle Scuderie del Quirinale per la mostra dedicata a Pablo Picasso: una ragionata esposizione (“Picasso. Tra Cubismo e Classicismo: 1915-1925”) che sceglie come apprezzabilissimo e concreto profilo tematico proprio lo snodo estetico e anagrafico del grande pittore nei suoi anni di più irrequieto cimento artistico e di poliedrica verve sperimentale. 



La struggente bohème della Parigi di inizio secolo non è ancora alle spalle, ma Picasso è ormai uomo e dell’età adulta è la cifra crescente della sua tematica pittorica e narrativa. Non è il salotto di Gertrude Stein il punto di osservazione privilegiato del mondo, la lotta con gli altri artisti, frutto di una rivalità competitiva comunque positiva, non è più, o non soltanto, con la sciabolata dei bicchieri di liquore, ma con la scherma della concettualizzazione del proprio ruolo nel mondo. 



La mostra romana, partita il 22 settembre e destinata a concludersi il 21 gennaio, fotografa perciò un periodo molto interessante e forse sottovalutato nel mainstream, dove hanno avuto più successo i turbolenti esordi giovanili o l’unanime recepimento di alcuni capolavori maturi. Non si può capire Picasso, però, senza trovarsi dentro quel decennio, che inizia con la guerra mondiale e si conclude a metà di un illusorio revival che sarà poi fatto a pezzi dalle brutalità degli anni Trenta. 

Per illustrare la più vivace decade picassiana, anche nel quadro degli sviluppi successivi, si possono scegliere opere coincidenti o diverse rispetto agli intendimenti della mostra, che però bene fa a non assecondare la moda recente di sostanziare il tributo all’artista allegando opere di numerosi contemporanei, fino a distrarre dal nucleo profondo del pittore celebrato. 



Che Picasso abbia trovato nel Cubismo non un facile colpo ad effetto ma un durevole tentativo di raccontare in modo verace la realtà lo dimostra ad esempio l’opera (senz’altro non cubismo ortodosso, è vero) “Sipario per Parade”, di ispirazione romana. C’è l’umanità con cui Picasso si sente in contatto senza forzosi pietismi esistenziali ma per erratica e irrefrenabile posizione nella vita: giocolieri, girovaghi, teatranti, maschere. È il 1917 e quella parata stradaiola ci suggerisce forse un fendente parallelismo con la cattiveria del mondo esterno: qui però domina un uso sorprendentemente riuscito dei colori e una vivacità complessiva che ha davvero poco di artefatto. 

C’è più maniera nel ben più noto “Due donne che corrono sulla spiaggia” (1922), illuminante, ad esempio, per il senso estetico di Botero, che già costituisce un nuovo tentativo di liberare la figura dalla costrizione del nostro modo di intendere lo spazio. Bagnanti enormi, mastodontiche, quasi sproporzionate che fendono la spiaggia come ciondolanti gigantesse del bagnasciuga. 

L’antiretorica esplode ne “Il Bacio” del 1925, dove l’urgenza fisica del bacio strappato al movimento delle due figure le rende praticamente inestricabili: la staticità dei baci celebri è farsa. 

Picasso, tra i trentacinque e i quarantacinque anni, e questo è forse il senso del crinale imboccato tra “cubismo” e “classicismo”, sembra in grado di sviluppare qualunque registro con un’originalità senza pari: è lo sforzo di ricerca che serve alla sua leggenda. 

Eccezionale a questo titolo “I tre musici” del 1921, che non è senza significato per l’opera dei Mirò o dei Magritte: musici geometrici tra monodimensionalità e bidimensionalità che però trasmettono l’arte improvvisativa che poi sarà del free jazz e dell’acid jazz. Impenitenti fototessere di biscazzieri nelle ormai scomparse notti di Parigi e Roma.