Quattro “esse”, due “ti” e solo due vocali. Un cognome che era tutto un programma quello di Ettore Sottsass. A pronunciarlo ti dà lo stesso sobbalzo che viene dal vedere la varietà infinita di oggetti che ha creato, di pensieri che ha messo sulla carta, di fotografie con cui ha documentato la sua curiosità rispetto al mondo. Il 27 dicembre saranno dieci anni dalla sua morte. Il 14 settembre sono stati i 100 anni dalla sua nascita. Per festeggiarlo Milano gli ha dedicato una mostra magnifica, appassionante, a tratti quasi travolgente. L’hanno immaginata e progettata alla Triennale la moglie, Barbara Radice, e il suo miglior allievo/compagno d’avventura, Michele De Lucchi. 



È una mostra di sole consonanti, che non concede spazio alle celebrazioni, ma che porta il visitatore a calarsi nel vortice di una creatività che non si fermava mai ad ammirare se stessa. Sottsass era un designer felicemente inquieto; nel senso che quella sua estrosità, che lo portava a soluzioni anche destabilizzanti, non era generata da un’ansia, né oggi genera ansia in chi la guarda e la vive. Basta entrare nel grande spazio centrale della Triennale dove sono raccolti i mobili “impossibili” per rendersene conto: siamo disorientati, ma ci sentiamo comunque a casa…



Sottsass era un irregolare profondamente rispettoso della vita regolare degli uomini. Stigmatizzava i colleghi che non rispettavano i principi elementari della progettazione. “All’ultima Biennale”, disse poco prima di morire in un’intervista, “ho notato che tutti i grattacieli esposti non hanno mai segnato l’orientamento, il nord, il sud, l’est e l’ovest. Vuol dire che a questi architetti non interessa dove è il sole, dove è notte e dove è giorno, sembra che non gli interessi abitare questi posti, ma solo disegnarli”. 

Si diceva lontano dal funzionalismo non perché volesse abbracciare una filosofia opposta, ma perché non se la sentiva di violare la vita delle persone, dettando lui le funzioni. “L’architettura si abita mentre l’arte si guarda ed è una differenza fondamentale”: era uno dei suoi pensieri più ripetuti nelle interviste. Per questo si accostava con disinvoltura ma anche con pudore al progetto, stando attendo di non imporsi a chi ne avrebbe fatto uso: oggetti liberi, rispettosi della libertà del destinatario.



Ammirava Le Corbusier e ci teneva a spiegare quanto la sua lezione fosse stata importante per lui. Solo che, a forza di scavare nella vita, si era reso conto che geometrie e misure non potevano bastargli, neppure se condivise dai più e assurte a dignità di standard. Vedeva la vita come una felice complessità, e pensava che il suo compito fosse quello di accettare quella complessità, non di regolarla o di incanalarla dentro una razionalità. 

Per questo la mostra di Milano è davvero uno specchio del modus operandi di Sottsass. Un modus operandi che aveva nella generosità creativa la sua cifra. Era un uomo che non teneva nulla per sé. Che pensava che ogni intuizione fosse da considerare bene comune. Quindi patrimonio da condividere, massimamente open source. 

Era un uomo libero e per questo anche sperimentatore. Osava sui colori, dopo aver ammesso di essere stato colpito dagli accostamenti cromatici choc delle ragazze parigine durante il ’68. Osava sui materiali, arrivando a progettare con il poliuretano espanso uno dei primi divani senza scheletro interno. I suoi oggetti hanno sempre un accento di bizzarria. Ma non era un accento antagonistico rispetto ad uno stile più razionale in cui non si riconosceva più. Piuttosto la sua estrosità apriva varchi nel quotidiano delle case, spalancava nuovi modi di vivere il paesaggio domestico. Non per sfida ma per amore.

Del resto con i suoi mobili e i suoi oggetti non voleva proporre (imporre) soluzioni. Né voleva (sapeva) spiegare le sue scelte. Per la sua ultima mostra, in corso a Trieste in quel dicembre di 10 anni fa, aveva voluto un titolo meravigliosamente leale: “Vorrei sapere perché”.

“Ettore Sottsass. There is a planet”, fino all’11 marzo 2018, Triennale di Milano