Con una lunga e bella introduzione di Franco Ferrarotti, le Edizioni Dehoniane propongono Il mistero del Natale, palpitante, calda e appassionata riflessione di Edith Stein sul mistero dell’Incarnazione (50 pp., 6 euro), pubblicato per la prima volta nel 1955 dalla casa editrice La Locusta e tradotto dal tedesco da Alma de Piaz.



Edith Stein, allieva prediletta e poi assistente di Edmund Husserl, convertitasi dall’ebraismo al cattolicesimo, diventata suora carmelitana nel 1933 a Colonia con il nome di Teresa Benedetta della Croce, deportata ad Auschwitz e perita nelle camere a gas, canonizzata nel 1998, ci regala una riflessione densa, sì, ma anche accessibilissima, che prende le mosse dalla nostra quotidianità esperienziale: “Quando i giorni si fanno sempre più corti, quando in un normale inverno incominciano a cadere i primi fiocchi di neve, allora, timidi e lievi, fanno capolino anche i primi pensieri di Natale. La sola parola sa di incanto, un incanto cui (…) nessun cuore può sottrarsi”. 



Così inizia questa meditazione, con il tono fatato che si converrebbe a una favola; perché, in fondo, è vero che anche gli uomini di altra fede, e persino quelli che di fede non ne hanno proprio nessuna, di fronte alla “vecchia storia del Bambino e di Betlemme”, fanno i preparativi per la festa, nella speranza di poter accendere, o di poter godere, di un qualche timido raggio di felicità. Ma per il cristiano, e per il cattolico, si tratta di ben altro: quel Bambino che l’arte ha rappresentato in mille forme, lo scampanìo festoso e gli inni dell’Avvento, sono ben più che il ricordo nostalgico di un incanto dal sapore infantile; sono il memento di una promessa espressa con “potenti parole di ammonimento”: “Stillate o cieli dall’alto (…) Il Signore è già vicino. Invochiamolo! Vieni Signore e non indugiare! Esulta o Gerusalemme con grande gioia, che il tuo Salvatore a te viene”.



Purtroppo, ricorda Edith Stein, la stella di Betlemme è una stella che ancora adesso splende in una notte troppo oscura. Si suole ripetere la promessa festosa: pace sulla terra a coloro che sono di buona volontà; ma non tutti sono di buona volontà, e lo vediamo e lo tocchiamo con mano ogni giorno: “Fu quindi necessario che il Figlio dell’eterno Padre discendesse dalla magnificenza del cielo, perché il mistero del male aveva immerso la terra nell’oscurità. Le tenebre coprivano la terra, ed egli venne come luce che brilla tra le tenebre, ma le tenebre non l’hanno compreso. A coloro che lo accolsero, portò luce e pace (…) la pace con tutti coloro che sono ugualmente figli della luce e figli del Padre che è nei cieli, e infine l’intima pace del cuore; ma non la pace con i figli delle tenebre. A questi il principe della pace non porta la pace, ma la spada. Egli è per loro la pietra dello scandalo, contro la quale essi vanno a infrangersi” (ibid.). In altre parole, ci ricorda E. Stein, quello del Natale non è un mistero zuccheroso e anodino; è un mistero combattivo; perché un mistero combattivo — nel senso che esprime una tensione continua e irriducibile della polarità secondo cui viviamo comunemente — è in sé quello dell’Incarnazione. 

Come ricorda Franco Ferrarotti nell’Introduzione, questa umanamente impossibile incarnazione del divino è una cesura, un taglio non rimarginabile nel destino dell’umanità. Se nel mondo greco, e secondo la saggezza classica in generale, il corpo, con le sue continue esigenze, le richieste pressanti, con il suo avere sempre troppo caldo o troppo freddo, troppa sete o troppa fame, è un impaccio, un ostacolo a salire le tappe di quella tensione ideale verso la perfezione morale e la purezza del pensiero, il Natale davvero è la festa dell’umanità, che viene riscattata completamente, anima e corpo. La saggezza antica esortava a liberarsi dal fardello del corpo: soma sema, diceva Platone, il corpo è una tomba; e tutta la filosofia antica, platonica e non solo, è un nobile, aristocratico, esercizio di preparazione alla morte, melethe tou thanatou, un esercitarsi a liberarsi del corpo.

Con il Natale, invece, il corpo viene recuperato, proprio perché il Verbo si incarna, prende un corpo: ed è questo mistero, di fronte al quale Leopardi scuoteva la testa incredulo e sarcastico (“Non so se il riso o la pietà prevale”, scriveva nella Ginestra), che riscatta tutto l’essere dell’uomo. Il mistero dell’Incarnazione è quindi il primo passo per una comprensione della vita che non sia solo parziale, ed è un passo rivoluzionario, che Edith Stein coglie molto chiaramente scrivendo che “bisogna vivere l’intera vita in quotidiana comunicazione con Dio”. E non è solo un precetto catechetico: Ferrarotti ricorda in proposito il tema dell’anima naturaliter christiana di tertullianea memoria; e persino Ovidio, il licenzioso, ironico, sbrigliato poeta del lusus amatorio, dell’eros inteso come gioco leggero e galante, esule nella remota Tomi annotò nei suoi ultimi anni: “Est Deus in nobis,/ agitante calescimus illo” (“C’è in noi un Dio; e grazie ai suoi sommovimenti siamo riscaldati”). Ma molti altri erano i segni premonitori, per così dire, di una sensibilità, forse di una inconsapevole attesa di un cambiamento radicale nella Storia: quel cambiamento fu proprio il Natale, il superamento del dualismo platonico.

Oggi, nelle nostre società così progredite, il corpo sembra al centro di tutte le attenzioni: curato, vezzeggiato, diremmo anche idolatrato. Mai come oggi la bellezza fisica “parla alle folle e trionfa”. Si potrebbe dire che in un tempo così autoreferenziale come il nostro, in cui dilagano egocentrismo e narcisismo, sempre più attuale è la riflessione di Edith Stein, che Ferrarotti definisce “la teorica dell’empatia”: ed “empatia”, ci ricorda con puntuale severità l’Introduzione, non è la filantropia generica con cui tacitare la coscienza, non è un qualcosa che dia solo sollievo e gioia. 

Tanto più preziose sono quindi le riflessioni di Edith Stein, la quale ammonisce come il mistero gioioso del Natale non possa essere disgiunto dall’ombra della croce e della sofferenza. Agli occhi del laico, la natività ricorda che la nascita, ogni nascita, è un duello con la morte, un duello da cui ogni individuo, da solo, esce di necessità sconfitto. Quando ci si chiede: Ubi est mors, victoria tua? (“Dov’è, morte, la tua vittoria”?), la Signora vestita di nulla potrebbe rispondere: Vide, homuncule: ubicumque triumphus meus patet (“Guarda, omiciattolo: dovunque è chiaro il mio trionfo”). Ma con la Natività questo trionfo ha trovato un termine: certo, però, come conclude Edith Stein, già nel presepe, nel dono dei Magi, c’è un annuncio di sofferenza. “In molti anni candelora e settuagesima sono vicinissime; la festa dell’incarnazione e la preparazione alla passione”. Già sulla capanna dove accorrono i pastori, cade l’ombra della croce, segno che il cammino del Figlio di Dio incarnato si snoda attraverso le tappe obbligate della sofferenza e della croce sino alla gloria della risurrezione: e così “per ognuno di noi, per tutta l’umanità, la via è giungere col Figlio di Dio, attraverso sofferenze e morte, alla gloria della risurrezione”.