Nel maggio del 1917 l’esercito italiano sferrò la sua decima offensiva sul fronte dell’Isonzo con guadagni irrisori rispetto alle perdite subite, come in quasi tutte le altre offensive precedenti. Va, tuttavia, sottolineato che anche l’esercito austroungarico subì perdite ingenti proprio perché il fronte isontino era relativamente poco profondo e andava conteso ogni metro. Se la tattica di Cadorna era ottusa e brutale, fondata sulla strapotenza dell’artiglieria e sull’assalto di ingenti masse di uomini, non meno brutale era quella del generale Boroevic che passò alla storia come “il leone dell’Isonzo”. Ma i leoni, o meglio, i poveri cristi, erano i suoi soldati seppelliti sotto i bombardamenti o immolati in continui contrattacchi, tanto che, nel corso delle undici battaglie prima di Caporetto, il conto delle perdite italiane fu superiore del doppio a quello austriaco ma in alcuni casi la differenza fu molto più ridotta. Va notato, comunque, che nel mondo austriaco Conrad e Boroevic sono considerati dei grandi generali e non sono stati sottoposti a critiche spietate come quelli italiani: e tutto ciò, considerando che il feldmaresciallo Conrad ha collezionato solo insuccessi cocenti.



In quei mesi le nazioni in guerra videro svanire tutto il capitale umano di cui disponevano. La Francia si era dissanguata a Verdun nel 1916 e nell’aprile del 1917 il morale del suo esercito era crollato di schianto con una serie di ammutinamenti molto più gravi e più estesi di quelli riscontrati nell’esercito italiano durante e dopo Caporetto. Lo zar Nicola II aveva abdicato e il governo provvisorio di Kerenskij stava spendendo le ultime risorse per tenere fede all’Alleanza senza prevedere il pericolo rappresentato dai bolscevichi di Lenin. Anche l’esercito austriaco, che aveva subito perdite disastrose ad opera dei russi, non aveva più energie e uomini da spendere mentre quello tedesco, dopo aver subito anch’esso perdite catastrofiche, stava cercando di razionalizzare ed economizzare gli sforzi. Gli imperi centrali, inoltre, subivano gli effetti del blocco navale britannico che, alla fine, si sarebbe rivelato come l’arma vincente. Quanto agli inglesi, avevano messo in campo tutta la forza dell’impero in continue offensive in Francia e in Belgio con poco costrutto ma dissanguando i tedeschi e impedendo loro di fare pressione su un esercito francese che stentava a riprendersi dopo la batosta dell’aprile 1917 sullo Chemin des dames. 



In agosto la nuova offensiva italiana venne portata con una larghezza di mezzi mai vista prima. La Seconda Armata del generale Capello guadagnò molto terreno sull’altopiano della Bainsizza e venne fermata dopo un mese di lotta titanica. Alla fine gli italiani avevano perso 160mila uomini e gli austriaci 80mila ma ciò che era più chiaro all’imperatore Carlo d’Asburgo, succeduto a Francesco Giuseppe nel 1916, era che la prossima offensiva italiana avrebbe raggiunto Trieste. Fu questo il momento in cui gli austriaci chiesero l’aiuto tedesco che arrivò con sette divisioni sceltissime e artiglieria diretta in modo assolutamente eccezionale.



Il 24 ottobre iniziava la dodicesima battaglia dell’Isonzo, meglio conosciuta come “battaglia di Caporetto”. Ancora due mesi fa, nelle rievocazioni di una sconfitta epocale con 300mila prigionieri e la perdita del 45 per cento delle artiglierie, è stato posto l’accento soprattutto sullo “sciopero militare” e sul crollo del morale. Il che è senz’altro un elemento importante, dato il logoramento cui era stato sottoposto l’esercito italiano in due anni e mezzo di continue offensive. Quello che non è stato valutato in modo sufficiente è l’elemento squisitamente militare, ossia come la consueta, notevolissima aggressività austriaca (ma anche ungherese e bosniaca quando si trattava di combattere contro gli italiani) fosse stata supportata da una condotta militare tedesca di portata superba. Si può dire del generale Konrad Krafft von Dellmensingen, capo di stato maggiore della 14esima armata tedesca, comandata dal generale Otto von Below quello che disse Wellington di Napoleone: “Signori, quest’uomo fa onore alla guerra”. Proviamo a enumerare alcuni punti di forza delle divisioni tedesche a Caporetto: 1. Tiro preparatorio di artiglieria intensissimo e breve seguito da attacco immediato per non lasciare tempo di reazione; 2. Individuazione delle batterie italiane per immediato tiro di controbatteria; 3. Impiego oculato e chirurgico di gas fosgene ed iprite, accoppiato a lacrimogeno che costringeva a togliere la maschera antigas; 4. Utilizzo su larga scala delle nuove “Stosstruppen”, reparti scelti e mobili che evitavano i capisaldi avversari e si infiltravano nelle retrovie colpendo artiglierie e seconde linee del tutto indifese; 5. Utilizzo da parte delle fanterie tedesche di artiglieria leggera trasportabile che permetteva di sopprimere i centri di fuoco avversari; 6. Movimento continuo, come quello del reparto comandato dal tenente Erwin Rommel che si mosse non sulle cime ma a fondovalle, profittando della nebbia e della scarsa visibilità, utilizzando mappe dettagliate: il che provocava l’isolamento dei capisaldi italiani sulle vette e la loro resa una volta isolati e privi di rifornimento.

Gli italiani furono colti di sorpresa non dall’offensiva in sé, largamente preannunciata da molti disertori, ma dalle modalità di esecuzione. Cadorna impiegò 48 ore cruciali per capire cosa stava accadendo ma va a suo merito aver deciso da subito di ritirarsi al Piave, facendo sosta al Tagliamento. Una fuga precipitosa sarebbe stata ancor più disastrosa. Bisognava dar tempo alla quarta armata di ritirarsi dalla Carnia perché questa grande unità, insieme alla terza, doveva costituire l’ossatura della nuova linea difensiva. La seconda armata del generale Capello infatti non esisteva più. E un’altra cosa va ricordata a chi è digiuno di storia militare: la manovra più difficile da compiere è quella fatta sotto la pressione del nemico poiché ci vuol poco per compiere un errore che può essere definitivo. Un ponte che salta troppo presto o troppo tardi, un ordine che non arriva possono avere conseguenze epocali. La ritirata italiana da Caporetto fu questo. I reparti combattenti della seconda armata furono annientati sul posto e la massa dei fuggitivi era composta, per lo più, da personale delle retrovie. I superstiti però lottarono con le unghie e coi denti ad ogni ponte, ad ogni caposaldo, sacrificandosi in battaglie che sembravano vane e invece, ogni volta, rallentavano di un poco la spinta avversaria. 

Un episodio fra tanti va ricordato ed è la battaglia di Pozzuolo del Friuli (30 ottobre 1917) dove i reggimenti di Genova Cavalleria e dei lancieri di Novara si sacrificarono combattendo casa per casa o in cariche degne dell’epopea napoleonica. Ci vorrebbero volumi per narrare, uno per uno tutti i combattimenti di retroguardia che avvennero in quelle settimane e dove migliaia di soldati italiani si sacrificarono senza risparmio. Eppure, proprio in quei giorni Cadorna emanava un bollettino di guerra che lo squalificava moralmente addebitando a reparti della seconda armata “ritiratisi o ignominiosamente arresisi” la responsabilità di una sconfitta che era dei comandanti, primi fra tutti lui, Capello e l’ineffabile Pietro Badoglio che, in modo inspiegabile, sarebbe sopravvissuto professionalmente a un disastro in cui aveva gran parte di responsabilità.

Il 28 ottobre gli austriaci erano già a Udine e il 31 erano sul Tagliamento gonfiato dalla piogge. Qui gli italiani della brigata Bologna resistettero con tale eroismo che von Below tributò loro l’onore della armi nella piazza di San Daniele del Friuli con queste parole: “E’ giusto ed è mio dovere di uomo e di soldato riconoscere e concedere l’onore delle armi a chi con tanto valore seppe riscattare l’onore del proprio esercito e onorare la propria bandiera”. Il 2 novembre gli austriaci del generale Krauss riuscivano a costituire una testa di ponte a Cornino oltre il Tagliamento. Il 26 veniva abbandonata anche Pordenone e la linea difensiva della Livenza, ma il ritmo dell’inseguimento rallentava per il susseguirsi di episodi di saccheggio e di ubriachezza. I soldati austriaci erano così affamati che pensavano più a far bottino che a inseguire gli italiani. E un altro fatto poco conosciuto è che anche tra le truppe austroungariche si stavano diffondendo disordine e indisciplina. Intere bande di disertori saccheggiarono il Friuli senza essere repressi. Moltissimi furono i casi di stupro sulle donne friulane, secondo un copione che si sarebbe rivisto con le marocchinate nel Lazio dopo la caduta dei Montecassino. Qui i “marocchini” erano i gloriosi soldati degli imperi centrali e la giustizia militare imperiale fece ben poco per punire tali eccessi. In fondo, si diceva, tutti gli italiani erano traditori e questa era la loro giusta punizione.

Ma non furono solo i soldati a resistere. Cadorna, per quanto discutibile sotto molti punti, aveva già fatto apprestare strade di comunicazione sul Grappa fin da settembre e aveva studiato la linea difensiva dove arroccarsi in caso di disastro sull’Isonzo. Fu la sua preveggenza a salvare l’Italia ma, proprio in quei giorni, venne sollevato dall’incarico e sostituito da Armando Diaz, napoletano, più affabile con i politici e più attento ai bisogni dei soldati. Quanto a re Vittorio Emanuele III ebbe la sua giornata di gloria al convegno di Peschiera l’8 novembre, quando illustrò ai comandanti inglesi e francesi le ragioni per cui l’esercito italiano avrebbe resistito sul sistema difensivo Altopiano di Asiago-Grappa-Piave e non ci sarebbero state altre ritirate. L’uomo si era ben preparato. Fece un figurone e gli Alleati ebbero fiducia in lui come massimo rappresentante del nostro paese.

Mentre le armate austriache avanzavano a ritmo lento i tedeschi mantennero un ritmo e una velocità quasi ubriacanti, compiendo continue sorprese come quando un reparto di ciclisti del Wurttemberg attraversò a tutta velocità una serie di ponti e riuscì a impedire il brillamento delle mine sul ponte sul Vajont. Era il 9 novembre. Il 10 novembre gli austriaci cercavano di passare il Piave ma venivano respinti. A metà mese il fronte sul fiume si era consolidato e il grosso dei combattimenti infuriava sul Grappa e sull’Altopiano dei Sette Comuni. Vi sono nomi che la storia italiana non può ignorare. Per il Grappa sono Monte Pertica, Col della Berretta, Col Caprile, Solarolo, Col Buratto, Monte Tomba. Proprio qui vi fu il primo intervento di reparti francesi che riconquistarono la vetta con impeto magnifico. 

Sull’Altopiano dei Sette Comuni la battaglia infuriò, con alcune pause, fino a Natale. Gli austriaci si batterono con ostinazione eroica ma interi reggimenti di fanti, alpini e bersaglieri, subendo e infliggendo perdite durissime, si sacrificarono quasi al completo. Monte Ongara, Monte Meletta, Monte Zomo, le Melette di Gallio e di Foza, Monte Badenecche: luoghi dove la storia è passata e si è fermata, dove migliaia di ragazzi appena diciottenni hanno dato la vita da incoscienti, senza pensarci troppo, educati a un amor di patria ormai scomparso che è l’amore per la libertà e l’indipendenza. Su quei monti è nata l’Italia, non dal Risorgimento. E, come dice la più bella canzone alpina, “si tu ven ca su tas cretis/là che lor m’han soterà/ a l’è un splaz plen di stelutis“. I più fortunati possono ritornarci fisicamente, ma a nessuno è vietato di ritornare con la mente e col cuore in quei luoghi e ripensare a quanto è accaduto. Là dove è la Dunkerque italiana e dove il nostro paese può ancora trovare l’energia, la forza e la fantasia per rinascere.

(3 – continua)