Nel dialogo Laelius de amicitia, scritto nell’autunno del 44 a.C., a pochi mesi dalla morte di Cesare, quando l’autore sperava ancora di poter tornare alla vita politica attiva, Cicerone riflette sul concetto e sull’esperienza dell’amicizia, mettendo in luce la sua complessità, soprattutto nel mondo romano, nel quale essa assume caratteri assai diversi, da quello della predilezione personale e privata a quello della dimensione pubblica e civile.
Pur essendo riconducibile a una situazione storica molto precaria, come quella che si verificava a Roma dopo la morte di Cesare, alla fine di una fase in cui l’antica repubblica aveva più volte vacillato sotto il peso di rivolte intestine e all’alba di una nuova forma di potere che più tardi, e solo dopo molto sangue, avrebbe portato al principato, il dialogo ciceroniano contiene una dottrina che appare valida e attuale anche al di fuori del contesto storico da cui nasce, come spesso avviene nelle opere dei classici.
L’argomentazione non è filosofica, anzi spesso l’autore diffida delle posizioni estreme di stoici ed epicurei, mantenendo invece la riflessione sul piano di esempi concreti, tratti dalla storia romana antica e recente, giudicati sulla base che egli stesso definisce quella del buon senso. Il suo intento non è speculativo, ma esistenziale; egli desidera “prodesse civibus”, giovare ai concittadini.
La concretezza dell’intento si rivela al cap. V,18. Cicerone, per bocca di Lelio cui è affidata tutta l’argomentazione, raccomanda ai suoi interlocutori “di anteporre l’amicizia a tutte le cose umane: nulla è infatti così conforme alla natura, così adatto e ai momenti felici e ai momenti avversi”. E li avverte anche che “non vi può essere amicizia se non tra i buoni”, senza con questo voler identificare i buoni con i sapienti, come amano fare gli stoici “forse con verità, ma con poca utilità pratica”. Sia pure, ma occorre “guardare a ciò che è nella vita comune, e non a ciò che è nell’immaginazione e nel desiderio”.
Perciò in tutto il dialogo ricorrono di frequente esempi tratti dalla vita romana, soprattutto quelli della antica res publica e tra essi in grande evidenza è posta la relazione tra Lelio e Scipione Emiliano. Cicerone descrive chi siano i buoni nel paragrafo seguente: “Coloro i quali si comportano in modo tale e in modo tale vivono, che si constati la loro lealtà, la loro integrità, il loro sentimento dell’equità, la loro generosità, né sia in essi cupidigia alcuna, alcuna sfrenatezza di passioni e temerarietà, e abbiano gran fermezza di carattere, costoro pensiamo che siano da chiamare buoni, poiché seguono, per quanto gli uomini possono, la natura, che è la migliore guida a vivere bene”.
Dopo aver osservato che l’amicizia si stringe di necessità tra due o tra pochi, l’autore giunge a definirne i contorni: “L’amicizia è niente altro se non un perfetto accordo nelle cose divine e umane, unito con un sentimento di benevolenza e di affetto; e di essa certo non so se, eccettuata la sapienza, dagli dei sia stata data all’uomo cosa migliore. Alcuni le antepongono la ricchezza, altri la buona salute, altri la potenza, altri gli onori, molti anche i piaceri”. Questi ultimi sono paragonabili a bestie, ma anche gli altri beni sono incerti e dipendono dal capriccio della sorte. Invece l’amicizia è il frutto della virtù.
“In che modo può essere vitale, come dice Ennio, una vita che non riposa nel mutuo affetto con un amico?” prosegue Cicerone nei paragrafi 22-23 con un discorso che si eleva dal tono medio fin qui usato agli artifici di una fine retorica, e conclude che grazie all’amicizia “cosa più difficile a dirsi, i morti vivono. Tanto li accompagna l’onore, il ricordo, il rimpianto degli amici”. E’ molto interessante questa visione dell’amicizia come vincitrice sulla morte: la memoria fa rivivere le persone care e in un certo senso rende presente il passato.
Più avanti, al capitolo VIII, 26-27 Cicerone discute dell’origine dell’amicizia, se essa nasca dal bisogno come alcuni pensano o piuttosto da una causa “più intima e più bella e più veramente naturale” e conclude che essa “sembra piuttosto sorta dalla natura che dall’indigenza, più per inclinazione dell’anima con un suo certo senso d’amore, che per riflessione sulla utilità che essa avrebbe poi avuto”. Anche le bestie amano i loro piccoli e sono da esse amate e ciò è ancora più evidente nell’uomo non solo tra genitori e figli, ma anche quando “sorge un simile sentimento d’amore se ci imbattiamo in qualcuno con i cui costumi e con la cui indole concordiamo, poiché ci pare di scorgere in lui quasi una luce di bontà e di virtù. Nulla v’è infatti più amabile della virtù, nulla che più alletti ad amare, poiché per la virtù e la rettitudine in certo modo amiamo anche quelli che non abbiamo mai visto”. Seguono esempi tratti dalla storia di Roma, così che la tradizione si arricchisce di una luce affettiva.
Ma affinché l’amicizia possa dirsi tale sono necessari tempo e vicinanza: “l’amore è rinforzato e dal bene ricevuto e dalla devozione constatata e dalla familiarità sopravvenuta, e se queste cose si uniscono a quel primo moto di simpatia, ne divampa una meravigliosa grandezza di affetto” (cap. IX,29).
Come ci si deve comportare con gli amici? Al cap. XIII Cicerone è molto preciso: “Prima legge dell’amicizia sia questa: che agli amici chiediamo cose oneste, per cagione degli amici cose oneste facciamo, non aspettiamo neppure di esserne richiesti; sempre vi sia sollecitudine; non vi sia mai esitazione; anzi osiamo francamente dare consigli; moltissimo valga nell’amicizia l’autorità degli amici che persuadono al bene; e la si usi ad ammonire non solo apertamente, ma anche severamente, se la cosa lo richiederà; e a una tale autorità si ubbidisca”.
Più sotto, dopo molte considerazioni interessanti sui limiti dell’amicizia, confutando le diverse opinioni correnti, conclude: “E’ proprio di un uomo buono, che si può dire anche saggio, osservare nell’amicizia queste due cose: la prima, che non ci sia nulla di finto o di simulato: persino l’odiare, se si faccia apertamente, è più da uomo nobile che nascondere il proprio pensiero dietro l’atteggiamento del volto; la seconda, che non solo si respingano le accuse mosse da qualcuno all’amico, ma che noi stessi non si sia sospettosi. Bisogna che a ciò si aggiunga una certa dolcezza di parole e di modi. L’aspetto arcigno, la serietà severa in ogni circostanza ha sì una sua gravità, ma l’amicizia deve essere un po’ più sciolta e indulgente, più incline alla cortesia e all’affabilità” (cap. XVIII,65-66).
Indegno dell’uomo è l’anteporre amicizie nuove a quelle consolidate, come sostituendo a cavalli vecchiotti giovani puledri. “Non vi deve essere sazietà nell’amicizia; quanto più è vecchia un’amicizia, tanto più deve essere cara, come quei vini che sopportano l’invecchiamento. Grandissima infatti è la forza di una consuetudine antica” (cap. XIX,67).
Concludendo queste considerazioni pratiche, ma anche ragionevoli e profonde, Cicerone cita il detto di Archita, un antico misantropo di Taranto, tramandato a voce dai vecchi, il quale “era solito ripetere che se qualcuno fosse salito al cielo e avesse visto la struttura del mondo e la bellezza degli astri, quell’ammirazione non gli avrebbe dato nessun piacere, mentre glielo avrebbe dato grandissimo, se egli avesse avuto qualcuno a cui narrarlo. Così la natura non ama che vi sia alcuna cosa solitaria e sempre s’appoggia a un qualche sostegno. E gli amici più cari costituiscono il più dolce dei sostegni” (cap. XXIII,88).