Frank Bascombe attraversa come protagonista le quattro storie di Tutto potrebbe andare molto peggio di Richard Ford e si ritrova suo malgrado testimone di certe disgrazie della vita. Una su tutte, l’uragano Sandy, eclissa le altre, tra cui un duplice omicidio e la morte imminente di un conoscente. Tutto sembra seguire l’invecchiamento di Frank: dai riferimenti alle sue vertebre cervicali sublussate che influenzano i suoi movimenti e tormentano anche le azioni più semplici, ai cambiamenti che i suoi conoscenti fanno, non sempre in positivo. Un esempio, il pescivendolo di lusso Arnie, co-protagonista del primo racconto, è trasformato nel volto, femminilizzato da una chirurgia plastica che fallisce la missione di ringiovanire. Come la tecnologia, che pure pervade la vita spesso in modo sbagliato e inquietante, la chirurgia estetica induce aspettative miracolose ma ottiene risvolti indesiderati, grotteschi e peggiorativi.



La perdita dell’innocenza è il fil rouge del romanzo che, come altri tre, vede Frank Bascombe protagonista disincantato rispetto a una realtà “altra” da come viene descritta sin dalla scuola materna. Il melting pot americano, sogno promesso (ai bianchi), si svela sogno mancato e diviene incubo nei quartieri ghetto per neri e latinos (e italiani) nonostante il doppio mandato di Obama, del quale Frank è un sincero sostenitore. Ex scrittore fallito, si ricostruisce un’identità come agente immobiliare in New Jersey e così impara a conoscere, e riconoscere, gli uomini nelle proprie debolezze e contraddizioni, dal cartello Voto per Romney nell’immancabile praticello verde alla standardizzazione di ogni pratica (chirurgica, religiosa, professionale, educativa, relazionale). Tutto è espressione dell’America in cui le dissonanze aumentano insieme ai suoi anni.



I quattro racconti sono collegati tra loro, un modo congeniale all’autore, acclamato dall’accademia e dalla Paris Review come maestro nel genere molto amato e apprezzato negli Stati Uniti. Questo modello, utilizzato anche negli altri romanzi di Ford, rende la lettura scorrevole per il lettore che, in alcuni passaggi, potrebbe sentirsi sovrastato dalla sua logorrea creativa che contrasta lo stile altrimenti asciutto. Forse questa asciuttezza gli è valso un posto nel Dirty realism di cui faceva parte anche Carver. Forse. Se pensiamo che l’asciuttezza chirurgica di Carver non era proprio endogena, quella di Ford pare essere il risultato non tanto di un editor con le forbici ma di un acido disincanto di cui è “vittima” e di cui rende Frank suo ambasciatore.



Anche se Ford non ammette come Flaubert Madame Bovary c’est moi, diventa chiaro come Frank Bascombe sia il suo alter ego non solo, o non tanto, nelle vicende autobiografiche ma soprattutto nel riflettere la stanchezza rispetto all’inutilità di certi gesti umani. Lo strumento attraverso il quale questa fatica emerge sono i dialoghi che Frank deve sostenere con “gli altri”: la scelta delle parole che accelerano la fine dell’incontro non piacevole con Arnie, che ha appena perso una casa da milioni di dollari a causa dell’uragano; la finta falsità di nice guy con cui accoglie Miss Pines, che si reca in pellegrinaggio in casa sua dove il di lei padre ha freddato madre e fratello trent’anni prima; la mancanza di coinvolgimento emotivo (forzato) per la sua ex moglie malata, per quanto ancora attraente. Le parole che Frank mette insieme per le sue relazioni con l’esterno non sono altro che la registrazione puntuale del disincanto sulle (promesse) potenzialità umane frantumate dalla realtà. Oppure dell’irrazionale necessità dell’uomo di “mettersi in pari” in camera caritatis, come fa un altro suo conoscente, che non vede e non sente da anni (perché Frank non ha amici, ha solo conoscenti). Eddie, malato terminale, chiama Frank al suo capezzale non tanto per dirgli addio quanto per svelargli qualcosa che un uomo non vorrebbe sentirsi dire mai. Frank riflette la stanchezza di Ford rispetto a eventi che richiedono uno sforzo di omologazione: esiste una reazione standard quando un conoscente (che due giorni prima ha annunciato la sua morte imminente per radio) ti dice: ho scopato tua moglie?

Dunque Frank usa le parole per tenere a debita distanza gli altri esseri umani e forse anche Ford avrebbe dovuto usare parole invece di sputare addosso allo scrittore Colson Whitehead in seguito a una recensione non positiva (Whitehead, a dispetto del nome, è un nero educato ad Harvard). La distanza esiste nel vuoto dovuto alle differenze antropologiche, alle calamità naturali, alle malattie, ai diversi credo religiosi e politici, al colore della pelle, al ceto. Che novità. Frank è abitato da una sorta di vacuum che è il prodotto non tanto dell’eccesso di marketing nella vita degli americani quanto del suo riconoscimento e smascheramento. E’ come il vino per gli alcolisti che ne sono usciti, meglio non averlo in casa.

L’unico momento in cui Frank si rivela “umano” è nel modo forse meno politicamente corretto che se ne stra-impipa della distanza, quando la sua mascolinità riemerge, seppur mitigata dalla fisiologia, nel vedere dei quadri raffiguranti frutti affettati che invece a lui sembrano vagine umane.

E se la vita si riflette nella letteratura, un uragano non lascia solo il vuoto sulle spiagge, portandosi via condomini e ville. Il vuoto è quello spazio freddo dell’anima da cui conviene ripartire. Come risponde Frank al personaggio antipatico di turno che gli contesta quanto poco succeda nei romanzi di Naipaul. Bisogna essere disposti a vedere quel che non è evidente.

Scritto nel 2014 (Let Me Be Frank With Youil titolo italiano mantiene la promessa in modo predittivo) prima che il fallimento del sogno americano si concretizzasse nell’attuale presidente, ne contiene tutti i semi che Ford ben dispone in forma narrativa preconizzando il disastro politico attraverso la vita quotidiana, i tic personali e il disastro naturale. La serie di Frank Bascombe nasce con The Sportswriter (1986, uno scrittore fallito diventa giornalista sportivo, proprio come Ford) e prosegue con The Indipendence Day (1995), che del primo è il proseguimento letterario e ottiene un grande successo tanto da portare all’autore entrambi i prestigiosi premi Pen/Falkner Award e Pulitzer Prize for Fiction, insieme al riconoscimento come autore di racconti, il Rea Award for the Short Story, e con Lo stato delle cose (2006). Dagli anni Novanta in poi Ford vede la sua rinascita come scrittore e inizia a collaborare con diverse università per corsi di scrittura creativa, e con editori in qualità di curatore di raccolte di racconti (Best American Short Stories, Granta Book of American Short Story).