L’impressione che si ricava dalla lettura della nuova edizione dell’Introduzione a Heidegger di Costantino Esposito (il Mulino, Bologna 2017, pp. 307) è che l’operazione della sua (ri)pubblicazione sia dovuta non tanto a una semplice occasione celebrativa (i novant’anni dalla pubblicazione di Essere e tempo) o ad una “astuta” scelta editoriale (stare nella scia del rilancio dell’interesse nei confronti di Heidegger, dopo la pubblicazione dei “famigerati” Quaderni neri), quanto ad una precisa urgenza. Quella di fare (finalmente, forse) i conti con Heidegger, attraverso un lavoro di lucida messa a punto di quei nuclei ancora incandescenti del suo pensiero e un esame “spassionato”, a partire proprio da questi stessi elementi, dei “modi” e delle “prospettive” in cui esso è stato letto e usato.
Sono proprio le parti che ampliano la precedente edizione, apparsa nel 2013, a dare corso a tale esigenza, ad un tempo critica ed ermeneutica. Da questo punto di vista, il capitolo dedicato al materiale dei Quaderni neri, la parte conclusiva rivolta alle principali linee di lettura e di ricezione del pensiero di Heidegger, oltre ad un nuovo paragrafo sui trattati risalenti agli anni Trenta e Quaranta e alla stessa breve avvertenza, non sono affatto mere aggiunte che, in maniera estrinseca, si limitano ad aggiornare un percorso già delineato. Tutt’altro: tali parti, anzi, illuminano e chiariscono il senso di un itinerario che ripercorre gli eventi e le tappe della biografia intellettuale del filosofo di Messkirch.
Per cogliere il senso della rilettura di Esposito si può partire proprio dall’avvertenza, in cui si dà conto del carattere di introduzione di tale impresa: qui, infatti, introdurre non significa offrire una versione semplificata o addirittura edulcorata di un pensiero complesso come quello heideggeriano, bensì significa metterne a fuoco la dimensione essenziale, che ha una portata insieme distruttiva e inaugurale. Proprio questi sono i tratti che, come richiamato nel capitolo conclusivo, definiscono la specificità e la fortuna di Heidegger. Il fascino dirompente della sua proposta teorica è dato dalla radicalità con cui egli ha messo in questione la tradizione metafisica occidentale, radicalità che non è quella di un netto rifiuto, bensì quella di un pensiero che, adottando la cadenza del passo indietro, è capace di riattingere l’essenza della stessa metafisica e ridestare così le domande che, dimenticate, sono andate a costituire il resto impensato della sua storia.
Ecco che, allora, l’importanza di Heidegger, dopo la stagione post-moderna con il suo stanco ritornello della fine della metafisica, sta nell’indicazione di una pratica di pensiero che si apra, senza gli ostacoli di una rappresentazione oggettivistica o di un’interpretazione soggettivistica delle cose e del mondo, alla manifestazione dell’essere del reale e al problema del suo significato e della sua verità. Si tratta, in definitiva, di riconoscere, con Heidegger, che solo una seria decostruzione può mettere capo a un’autentica ricostruzione, ovvero all’elaborazione di un’ontologia — esistenziale o fenomenologica — quale terreno di dialogo fecondo, oggi, ad esempio, tra analitici e continentali.
Dunque, è la metafisica, o meglio la sua storia, la vera posta in gioco del pensiero heideggeriano. E lo è soprattutto nella discussione intorno ai modi in cui esso andrebbe ascoltato e interrogato, in particolare in relazione alle spinose questioni dell’antisemitismo e della compromissione con il nazionalsocialismo. In quest’ottica, i Quaderni neri, se liberati dalla zavorra di essere considerati un “feticcio”, sono un documento estremamente importante per riflettere non solo sullo stile heideggeriano di interrogare l’essere dell’uomo, di un popolo, della storia e della politica, ma anche sui nessi che sorreggono tale interrogare.
Il febbrile confronto con il proprio tempo, che i fitti taccuini di annotazioni testimoniano, è il frutto della volontà di indagare le forze metafisiche all’opera nel destino di un popolo e di una nazione. In questa indagine ne va proprio della maturazione del senso di disillusione di Heidegger nei confronti del nazionalsocialismo, dapprima visto come una possibilità “barbarica” di porre fine alla modernità cristiano-borghese, ma poi interpretato come la piena realizzazione di questa stessa epoca del mondo. Un’epoca di decadenza spirituale, dominata dalla tecnica e dalla razionalità calcolante e condotta verso la sua catastrofe anche dalle forze dell'”ebraismo mondiale”.
Opportunamente collocata in una prospettiva metafisica e nell’orizzonte della storia dell’essere, la valutazione negativa dell’ebraismo nei Quaderni neri non si giustifica, così, né nei termini di una presa di distanza teologica in senso cristiano né in quelli razzisti tipici dell’ideologia nazista. Paradossalmente, per Heidegger, ebraismo e nazismo, ebraismo e cristianesimo non si contrappongono, ma sembrano stare insieme in un nesso costitutivo.
Esposito porta così allo scoperto il grande rimosso della ricostruzione heideggeriana della storia della metafisica: il grumo irrisolto della provenienza ebraico-cristiana. Ma, insieme, smaschera anche il gioco rischioso di certe ricostruzioni storiografiche, le quali non hanno saputo o voluto vedere lo scarto tra ciò che Heidegger consentiva di pensare e il prezzo che imponeva di pagare: la neutralizzazione nella storia della metafisica della tradizione ebraico-cristiana e illuministica e, di conseguenza, l’addomesticamento di un pensiero, come quello heideggeriano che, per Esposito — ma anche per noi — non dovrebbe invece smettere di inquietarci.