Il Papa la chiama terza guerra mondiale strisciante; i nuovi teorici militari russi di Putin come Gerasimov parlano di guerra ibrida; osservatori e teorici dalla Cina (come Qiao Liang o Wang Xiansui tra gli altri) dicono che è una guerra morbida e che il mondo è in una situazione da stati combattenti.

Fabio Mini nel suo recente Che guerra sarà (Il Mulino 2017) spiega che oggi “l’uso della forza non è più l’extrema ratio: non è neppure lo strumento ‘ancillare’ della politica e della sicurezza: la guerra e la minaccia della guerra consentono di creare l’insicurezza a mantenerla a quel livello di parossismo necessario all’esercizio del potere. Qualsiasi forma di guerra — dissuasiva, aggressiva, difensiva, punitiva o preventiva — soddisfa l’uomo politico, primo sicario e vittima della sete di potere, perché gli consente di alterare la percezione di chi lo sostiene”.



Mini non è un pacifista che vuole fiori nei cannoni (o crema nei cannoli), è un generale di corpo d’armata con ampie esperienze sul campo ma è il mondo senza pace e — peggio — senza prospettive di pace che lo rende inquieto.

Se non c’è la pace, un ordine, un fine per cui si fa la guerra, la guerra diventa tutto e la guerra è crudele, spietata ricerca di distruzione. Ma se è così si perde allora il fine etico per cui i soldati sono chiamati a uccidere altri e anche se stessi; la morte e la distruzione sono solo fini in se stessi o per la brama di potere di qualche potente. Cioè se non c’è una prospettiva di pace, di ordine, di miglioramento, ogni guerra è puro esercizio di morte che ci riempie la vita.



In questo Mini vede il grande spettro che si staglia e toglie ogni prospettiva al soldato. Questo coinvolge tutta la visione della realtà: “La guerra deve essere lunga, meglio se permanente e perpetua, perché si deve vivere in uno stato di costante paranoia che per definizione è caratterizzata da un delirio cronico, basato su un sistema di convinzioni, principalmente a tema persecutorio, non corrispondenti alla realtà. Purtroppo non sappiamo più qual è la realtà” scrive l’autore.

Le conseguenze di questo fatto sono totali. Le idee stesse di democrazia, e quindi di libertà, sono in pericolo, ricattate dalle minacce di tecnologie che chiedono sempre maggiori miglioramenti, spese e dal clima generale che li sta alimentando. Le guerre oggi del resto non scoppiano più, nota il generale, devono “strisciare, consumare, espandersi, eruttare in un posto e mimetizzarsi in un altro”.



Viste dalla Cina queste nuove guerre appaiono come la situazione della pianura intorno al Fiume Giallo tra il VII e il III secolo avanti Cristo, il periodo delle Primavere e degli Autunni, quello in cui le centinaia di stati in cui si era polverizzato il dominio dell’imperatore Zhou si ridussero a una dozzina di entità forti. Era il periodo in cui il filosofo e primo ministro di uno quegli stati, Shang Jun, introdusse un concetto totale di difesa. Essa partiva dalla buona amministrazione dell’agricoltura, che avrebbe fornito le basi economiche (maggiori produzioni, maggiori tasse) e sociali (inquadramento delle famiglie di contadini sul terreno che avrebbero poi fornito soldati).

Wei Liaozi o Liu Tao (due dei sette classici filosofi della guerra della Cina antica) dopo di lui approfondiranno il tema spiegando che tutta l’organizzazione statale deve essere messa al servizio della guerra, della difesa diremmo oggi.

Allora non c’era un problema di percezione di realtà. Stati venivano invasi, annientati e inglobati con le loro risorse di territorio e popolazione. I soldati venivano tutti uccisi, i culti, le tradizioni locali precedenti cancellate e venivano imposti valori, ideologie nuove sulla popolazione residua (donne, bambini e vecchi) che veniva assorbita.

Questo processo si esasperò intorno al VI-V secolo, tanto che a cavallo del V-IV secolo una scuola di pensatori seguaci di Mozi propose una teoria per il rafforzamento dei piccoli stati che avrebbero dovuto opporsi all’espansione dei grandi stati e alle loro guerre offensive. I mohisti ebbero grande fortuna per un periodo, se non che anche i piccoli stati, una volta rafforzatisi, cominciarono a farsi la guerra e ad avere ambizioni da grandi stati. L’obiettivo di pace allora si spostò e diventò la fine di tutte le guerre, cioè la conquista di tutti gli stati, cioè la grande unificazione della Cina sotto il primo imperatore nel 220.

È la pace imperiale romana promessa da Augusto e che Tacito saggiamente disvelò come deserto, è la fine della Storia che vide Hegel in Napoleone e Fukuyama nel sistema Usa, come nota melanconico Mini. Tanti filosofi scambiano infatti l’imperio con la pace.

Ma è questo pericoloso scambio mentale, più la percezione di uno stato di guerra costante, che oggi potrebbe portare alla ricerca di una situazione come quella che condusse al primo imperatore cinese: uno stato che distrugge tutti gli altri e assorbe, sottomettendoli, i sopravvissuti. Perché tutti hanno bisogno di pace, i soldati per primi che non possono morire per morire, fare la guerra per la guerra. E per loro più facilmente che per altri, il comando chiaro può essere facilmente scambiato per pace.

La prospettiva è pericolosissima per la maggioranza, perché come già notava Mozi, in questa corsa alla supremazia uno stato prevale e centinaia soccombono. Un calcolo razionale dovrebbe spingere tutti a fermarsi. Anche i soldati, per primi. Divisi in tanti stati sanno che ci sono scarse probabilità che sia la loro pace, ed è più facile che sia la pace di qualcun altro. Questa ricerca di impero è spiegata in un altro libro sempre di Mini (La guerra dopo la guerra). In ogni caso, ambizione, ricerca di potere e interesse di gruppi dominanti eliminano o nascondono percezioni razionali della realtà.

Mini mostra come i venti di guerra comincino a spirare più forti oltre che nel solito Medio oriente anche in Asia orientale, intorno alla Corea del Nord, dove peraltro cominciò, con una guerra molto calda, quella che poi venne chiamata la Guerra fredda. La nuova guerra fredda, ibrida, strisciante sta eruttando lì, con armi nuove, racconta Mini, progettate per nemici sofisticati ma da usare probabilmente contro cavernicoli. In tutto questo l’affare concreto non è la guerra di domani ma la preparazione alla guerra che crea affari e ci porta forse una spirale di pericoli sempre più grandi.

In questo momento così drammatico, le varie grandi potenze sono ciascuna alla ricerca di maggiori spazi per sé, mentre le istituzioni internazionali, fondate per mediare per la pace dopo il cataclisma della seconda guerra mondiale, paiono giunte al fallimento. In questo naturalmente emerge un nuovo ruolo delle religioni e della Chiesa cattolica che forse ancor prima della fede può aiutare a riportare razionalità, ragionevolezza e senso di realtà in questo mondo.