Come per guardare davvero un affresco, e apprezzarlo veramente in tutti i dettagli, non bisogna stare col naso incollato al muro dipinto, ma è necessario invece, per avere una visione d’insieme e capire l’importanza di ogni figura e di ogni particolare nell’economia della rappresentazione, fare tre, quattro e forse anche cinque passi all’indietro; così, quando si parla di letteratura, è il distanziamento temporale a consentire di mettere autori e opere nella giusta prospettiva, e proprio questo sempre più ci dà e ci darà ancora in futuro la precisa idea della grandezza di Umberto Saba nel panorama della poesia italiana del Novecento. A lui Stefano Carrai, docente di letteratura italiana nell’Università di Siena, dedica ora la ricca biografia Saba (Salerno Editrice, 2017). Carrai, membro del Collegio direttivo del “Giornale storico della letteratura italiana” e de “L’Alighieri”, ha di recente pubblicato, sempre per Salerno, il piccolo e prezioso Boccaccio e i volgarizzamenti, da noi già recensito su Libero: la sua biografia di Saba è dunque scritta con l’occhio attento del critico, ma anche del filologo, e può quindi illuminare tanti aspetti della poesia di Saba che spesso, per tanti, svariati motivi, vengono passati sotto silenzio nella prassi didattica.



Nascere a Trieste a fine Ottocento era una circostanza che, in qualche modo, segnava il destino: la città, strategico sbocco sul mare dell’Impero Austro-Ungarico che viveva i suoi ultimi fasti prima del tracollo, ne era il porto più grande e più importante per i traffici mercantili con l’Oriente. Era poi un crogiolo di razze: funzionari pubblici, prevalentemente di etnia e di lingua tedesca, italiani, sloveni, greci, levantini, e una cospicua comunità ebraica da cui proveniva la madre di Saba, Felicita Rachele Coen, mentre il padre, Ugo Edoardo Poli, triestino di nascita, era di cittadinanza italiana e di religione cattolica. La muliculturalità di Trieste era dunque nel Dna del giovane Umberto: il celebre sonetto di Autobiografia rievoca la sua infanzia senza padre, dipintogli a tinte foschissime dalla madre (“Mio padre è stato per me ‘l’assassino’/ fino ai vent’anni che l’ho conosciuto”, vv- 1-2); e quel disaccordo, quella disunità lacerante fra i genitori venivano da due visioni del mondo e della vita diametralmente opposte.



Una delle sezioni più interessanti del Saba di Carrai è il capitolo terzo, “La fase della maturità, fra classicismo e psicanalisi”, per l’equilibrio con cui ci presenta la complessità di un autore solo all’apparenza “facile”, mostrandoci le molte sollecitazioni (psicanalitiche, ma anche letterarie, ricostruite con precisione da filologo) di cui è esito felice la sua poesia. Molto importante è sottolineare, infatti, “l’esempio del Parini delle Odi“, anche per controbattere a chi aveva voluto vedere nelle canzonette sabiane una diretta ispirazione da Metastasio. Su quei ritmi così melodiosi e cantabili, Saba modulava effusioni e fantasie che ci riportano, in maniera molto trasparente, al Pindemonte de La Melanconia (“Melanconia,/ ninfa gentile,/ la vita mia/ consegno a te”), evocata nell’omonima canzonetta: “Malinconia,/ la vita mia/ struggi terribilmente;/ e non v’è al mondo, non v’è al mondo niente/ che mi divaghi”.



Ugualmente, Carrai dedica il giusto e dovuto spazio all’esperienza del Saba prosatore, vista non come opposta, e forse nemmeno strettamente complementare alla poesia: lo dice bene il titolo del capitolo quinto, “Un diverso canto: la prosa”. Anche se è innegabile che l’inclinazione verso la scrittura in prosa sia stata in Saba marginale rispetto a quella poetica, tuttavia egli iniziò molto presto a tentare, benché in modo sporadico, la strada della narrativa breve come una espressione alternativa, ma non meno importante, del suo mondo interiore. Nel 1928, ricorda Carrai, Benjamin Crémieux, delineando il panorama della letteratura italiana a lui contemporanea, affermava che negli scrittori triestini l’inquietudine si caricava di tormento, patriottico o metafisico che fosse. La prefazione scritta da Saba nel 1952, al momento di pubblicare i primi frutti della sua vena narrativa, fra i quali spiccano le Sette novelle, chiariva molto bene quale fosse stato l’intento che aveva ispirato i racconti: il sentimento di voler rivendicare il diritto di un giovane (all’epoca in cui si era accinto all’impresa, non ancora trentenne) ad avere una propria e peculiare visione del mondo, propria e ben diversa da quella che la madre e gli altri membri della famiglia tendevano a imporgli.

Da ultimo, le pagine conclusive del capitolo, e del saggio stesso, Carrai le dedica all’interessante questione relativa alle lettere di Saba. Come viene sottolineato, una grave lacuna degli studi sabiani è rappresentata dal non avere ancora a disposizione l’epistolario completo di questo autore: delle oltre duemila lettere che la figlia Linuccia raccolse ne sono note solo alcune centinaia, pubblicate in carteggi separati. Una raccolta completa dell’epistolario sarebbe invece utilissima non solo per una migliore conoscenza biografica, ma anche perché Umberto Saba fu un epistolografo molto prolifico, ma anche di piglio notevole e di eleganza non comune, come già rilevava Andrea Zanzotto. Ed è proprio con l’auspicio a trovare pagine interessanti fra le lettere inedite, come molte ve ne sono già nelle lettere edite e conosciute, che si chiude la biografia di Stefano Carrai, che annota come la raccolta completa, quando sarà disponibile, rivelerà non solo una miniera di notizie, ma anche una nuova opera di questo autore, che si rivela già ora affascinante.