Non è più sufficiente ripetere “Gesù Cristo, Gesù Cristo”. Nemmeno citare discorsi che fanno parte di un repertorio passato: “E’ necessario cercare cosa questo vuole dire per noi” scriveva il gesuita Michel de Certeau. Esattamente il pensiero che Francesco traccia come rotta a La Civiltà Cattolica, rivista della Compagnia di Gesù che ha festeggiato in questi giorni la copia numero 4000 nei suoi 167 anni di storia. Una cifra tonda tonda che non è tanto l’occasione per celebrare una raccolta, pur gigantesca, di articoli scritti da giornalisti più lavoratori che intellettuali, ma per poggiare lo sguardo su un enorme contenitore di vita. Anche per tratteggiare uno stile che, scelto come proprio fin dalle origini, possa diventare stimolo condiviso con il mondo di un’informazione che voglia tenere fede all’etimo della parola: in-formare, tenere-in-forma l’animo lettore.
Nell’esperienza di fede abita una doppia dimensione: una verticale verso Dio, una orizzontale nei confronti della storia. Fedeli a Dio, fedeli all’umano: è la giustizia del Cielo che s’aggancia con la giustizia della storia di quaggiù. Per tentare quest’avventura — che è poi quella di accettare l’eterna sfida di decifrare il mondo che si abita — il giornalista dev’essere inquieto. L’inquietudine come prima compagna di viaggio, compagnia necessaria per non correre il rischio di diventare sterili. D’accanirsi nel ripetere eternamente “Gesù Cristo, Gesù Cristo” senza porsi la domanda di chi sia diventato Cristo per l’uomo d’oggi.
Ciò che salva è prendere consapevolezza delle ferite del mondo e, illuminati dalla luce dello Spirito, tentare di individuare delle terapie. Un declassificare Cristo sotto la dimensione della mondanità? Assolutamente, bensì l’esatto suo contrario: non citare di continuo Dio ma vivere-scrivere in modo che la gente possa tornare a chiedere di Lui. Per fare questo, però, è necessario abitare il mondo nella sua complessità, finanche negli spazi che paiono in putrefazione: “Restate in mare aperto! Il cattolico non deve avere paura del mare aperto” li ha esortati il Papa. Suggerendo, assieme all’inquietudine, l’incompletezza: nel mondo a valere è il completato, compiuto, soddisfatto-rimborsato. Preservare l’incompletezza è salvaguardare la dimensione dell’attesa: di fronte al Dio delle sorprese e degli agguati, si necessita «essere giornalisti e scrittori dal pensiero incompleto, cioè aperto, non chiuso, rigido”. Le frasi chiuse, i concetti rigidi, le analisi definitive rischiano di partorire visioni ovvie, prospettive scontate anche nella trasmissione della fede. Non più capaci di trafiggere la curiosità del mondo. Un mondo il cui cuore “di solito non è raggiunto attraverso la ragione ma attraverso l’immaginazione” (J.H. Newman). Inquietudine, incompletezza, immaginazione.
La necessità è quella di penetrare l’ambiguità del reale. Per fare ciò, quale strumento migliore dell’immaginazione? Immaginando, l’uomo “apre cupole e corridoi lì dove ci sono solo tetti e muri”. Fidarsi dell’immaginazione è rischioso e Francesco lo sa: significa percorrere gli spazi della fantasia, abitati da bugie di ogni tipo, per scoprire e costruire la verità.
E’ l’eterna diatriba tra Apollo e Cristo: il primo vuole scappare da ciò che è finito, il secondo s’inabissa nell’incompiuto per dare una forma alla compiutezza. Abitare nel mondo e, nello stesso tempo, trascendere il mondo: quaggiù, non di quaggiù. E’ il canto dei profeti: “Allarga lo spazio della tua tenda” (Is 54,2). La tenda-piantata narra la fedeltà alla terra, la tenda-allargata testimonia la fedeltà a Dio, l’apertura in pianta stabile alle sue sorprese. Tessute assieme, favoriscono il parto di un pensiero umanizzante, prima ancora che evangelico: “Una rivista è davvero cattolica solo se possiede lo sguardo di Cristo sul mondo, e se lo trasmette e lo testimonia”. Calcolare il rischio non-è-Francesco: cattolici lo si diventa solo se si possiede lo sguardo di Cristo sul mondo. Uno sguardo da poeta: inquieto, incompiuto, immaginativo. Per riuscire a leggere il mondo dentro un granello di sabbia.