Compaiono in questi giorni sulla carta stampata le celebrazioni, di segno diverso, dell’ondata di contestazione del 1977. La logica del quarantennio lo impone. Il profumo del ricordo “cambia in meglio”, cantava Guccini all’inizio degli anni Settanta ed è quindi logico che chi fa riemergere i ricordi non possa non incrociare lo scenario di quel contesto sociale e politico con quello dei propri vent’anni; con tutti i tormenti gli slanci e le follie che da sempre accompagnano questa fase della vita e che, proprio in quell’anno, furono circondati dalla cornice di avvenimenti singolari, imprevisti e violenti, provenienti dalla cronaca politica: dalla cacciata di Lama dall’Università di Roma alle vicende bolognesi di Radio Alice, dagli autonomi romani in armi agli agenti di polizia rimasti sul selciato, morti. Nel 1977 si unirono, in un cocktail micidiale, “il pane e le rose”: il pane avvelenato delle analisi deliranti dei maestri del pensiero dell’epoca e le rose gonfie di spine di tanti percorsi privati votati all’autodistruzione, come ha spiegato egregiamente Nanni Moretti nel suo “Ecce bombo”.
Di fatto il ricordo del 1977 non cambia affatto in meglio quella triste primavera: con gli autonomi che inneggiavano alle p38, le insensatezze culturali nelle assemblee e gli indiani metropolitani colorati e folklorici. “Son caduti i fiori e hanno lasciato solo simboli di morte” (ed è ancora Guccini). In quei mesi mi scoprii a rileggere Marx al contrario: la farsa non ha seguito la tragedia, l’ha preceduta. Prima, nel 1968, c’era stata la farsa giocosa della “rivoluzione irreperibile”, come affermava Raymond Aron; nove anni dopo, nel 1977, ci sarebbe stata la tragedia, con le aggressioni e i lutti; i miei compagni di liceo con la pistola sotto l’eskimo che, nel vortice della loro prima giovinezza, passavano in pochi mesi dal calciobalilla e le domeniche al parco alla “spesa proletaria”, agli attentati ed alle esecuzioni. Ci vorrà lo shock del sequestro Moro e la sua esecuzione da parte dei proto-talebani delle Brigate rosse, i deliri delle loro analisi, l’assassinio di un sindacalista della Fiom, come di molti altri innocenti, da parte delle avanguardie del “partito combattente” e le sconfessioni dei Peci e dei Fioroni per fermare un simile delirio.
Il 1977 segna un momento fondamentale di quel processo culturale che si può riassumere nel termine di “corruzione delle idee”; dove le idee imputridiscono e degenerano, come piaghe a cielo aperto, rimaste ad attirare tutti gli orrori del mondo. Analisi deliranti e sociologie rabberciate possono depravare le menti migliori. Se l’errore è una verità impazzita come segnala don Giussani rileggendo Chesterton, le verità impazzite possono portare al disastro ed alla tragedia un’intera generazione.
Perché di tragedia culturale si è trattato e non di altro. Tragedia per chi ha perso la vita come per chi ha ucciso, per chi non dimentica con facilità quella pressione dell’indice sul grilletto dell’arma, quando per un istante è stato veramente giudice supremo, “arbitro in terra del bene e del male”, secondo la migliore narrazione del terrore al potere e la negazione più radicale di qualsiasi tradizione libertaria come di quella di riconoscimento dell’altro come essere umano.
Il Settantasette mi ha insegnato quanto sia scosceso e facile da percorrere il pendio che porta verso la sociologia d’accatto, quella che non vede più le persone dietro i ruoli, né le coscienze dei singoli dietro le scelte. Quella che non rintraccia le ragioni ma solo i riflessi condizionati e per la quale si aprono le porte della meccanica rivoluzionaria. Quella per la quale basta uccidere un uomo per “disarticolare” le istituzioni, basta provocare la reazione di quest’ultime affinché scompaia “l’equivoco socialdemocratico”, basta organizzare l’atto terroristico “con geometrica potenza” affinché il capitalismo si dissolva, gli amori fioriscano, e il proletario scelga liberamente se fare il “critico-critico” o “andare a pesca”: pensieri miserabili, derive culturali elevate al prestigio delle cattedre universitarie.
Non posso non provare un affetto profondo per ogni vittima di quel delirio; per chi si è giocato la vita o la coscienza (o entrambe); per chi è scivolato sulle semplificazioni, farneticando sullo “Sim” (lo Stato Imperialista delle Multinazionali) come recitavano i documenti delle Br d’annata; per chi si è perso, ha perso sé stesso e noi insieme a lui, perché da quella tragedia non ci siamo mai ripresi. Così come non posso provare un fastidio, un’insofferenza sincera e senza resti, per chi, con le proprie analisi, ha versato sale sulle ferite di una generazione spiaggiata verso il riflusso edonistico e banalizzante degli anni ottanta. Per chi, dopo la fiammata sessantottarda, non ha saputo crescere, né far crescere, se non nei fantasmi della peggiore ideologia, un’intera generazione.
Ho pietà e affetto per tutti coloro che si sono giocati il cuore in quei mesi impossibili e omicidi, ma nutro un’avversione infinita per chi, nei comodi studi delle nostrane università, non ha saputo, né voluto, né capito. Di quelle nefandezze culturali ogni autore ne resta responsabile.