Uscirà in primavera, presso Silvana Editoriale, la raccolta delle lettere di Giorgio de Chirico (1888-1978), il padre della pittura metafisica. I carteggi dell’artista con Apollinaire, Soffici, Papini, Carrà, Breton, Eluard e molti altri riguardano il cruciale ventennio che va dal 1909 al 1929. E leggerli, al di là del loro valore di documento — e spesso del loro valore letterario perché De Chirico, nonostante il suo italiano all’epoca malcerto e intessuto di francesismi, ha un linguaggio asciutto, solido, architettonico nel periodare — è come compiere un viaggio nella pittura del Novecento.  



Sono oltre quattrocentocinquanta le lettere raccolte nel libro. E questa sorta di “biografia” epistolare speriamo possa contribuire a far conoscere meglio, attraverso le sue stesse parole, la figura di un artista che è forse il più studiato tra i pittori italiani del Novecento ma resta, come la sua opera, il più enigmatico. 



Innanzitutto, grazie al carteggio del 1909-1911 con un pittore oggi dimenticato, Fritz Gartz (una scoperta recente dovuta a uno studioso tedesco, Gerd Roos), le lettere ci fanno avvicinare alla genesi della metafisica, cioè alla più radicale invenzione artistica del Novecento perché rivoluziona non le forme ma i significati delle cose.

Ci fanno conoscere poi il rapporto di de Chirico con Apollinaire, dal loro incontro nello studio parigino del pittore alla prematura morte del poeta. In tempo di guerra, ancora, ci fanno muovere nel dedalo delle riviste d’avanguardia italiane ed europee attraverso la corrispondenza con Meriano, Binazzi, Raimondi, Tzara e altri, ma intanto ci raccontano della stagione di Ferrara e dell’ospedale psichiatrico di Villa del Seminario, dove Carrà e De Chirico sono ricoverati perché “inabili alle fatiche della guerra” e la pittura metafisica trova appunto in Carrà il suo primo seguace. 



Le lettere ci fanno arrivare poi al cuore di quell’ideale classico che si afferma nell’Europa del dopoguerra e ha in de Chirico uno dei suoi padri maggiori. E’ un ideale che trapela non solo nel 1918-19 dal suo scambio di idee con Soffici, Papini, il mondo di “Valori Plastici”, ma già prima, nel 1916, quando l’artista ricorda ad Apollinaire l’insegnamento di Eraclito: “Il tempo non esiste e sulla grande curva dell’eternità il passato è uguale all’avvenire”. Il tempo, dunque, non va verso il futuro come predicavano i positivisti e i futuristi, ma è un eterno presente. L’arte esprime quell’ora cui accennava Mandel’stam (“Che ora è?, gli chiesero i curiosi/ e lui rispose: E’ l’eternità”) e che è moderna perché comprende tutte le epoche.

Queste lettere, ancora, ci fanno conoscere il dramma dell’incontro e dello scontro di De Chirico con i surrealisti, prima apostoli e poi apostati della sua pittura. Breton, Eluard e compagni adorano la metafisica, ma non sanno accettarne le metamorfosi del dopoguerra, rifiutandosi di comprendere che negli anni venti De Chirico non è un accademico in ritardo, semmai un postmoderno in anticipo.

Ma forse quello che più conta nel libro è la dimensione umana e psicologica dei carteggi, che raccontano una storia di rapporti e sodalizi. In tempo di guerra, in particolare, l’amicizia di De Chirico per Carrà, Soffici, Papini e pochi altri interlocutori raggiunge punti commoventi di intensità, nel vagheggiamento visionario di un “nuovo rinascimento”. “Non c’è mica bisogno di una caterva di superuomini per formare un rinascimento. Tu, Savinio, Carrà-Papini, Soffici, io bastiamo con poesia, pittura e musica” scrive a Meriano nell’aprile 1918. Purtroppo ci vuol poco perché i miraggi svaniscano, in un moto di delusione e disincanto.

Si è detto dei surrealisti. De Chirico, poi, aveva un carattere indifeso che passava dagli entusiasmi indiscriminati alle accuse ingiuste. Gli uomini sono quelli che sono, e gli artisti non fanno eccezione. Eppure queste lettere ci fanno vedere che la storia dell’arte non è solo una storia di idee. E’ anche, se non soprattutto, una storia di amicizie.