Non so se sia esatto dire (come qualcuno, in procinto di trasferirsi a Roma da Bologna, ha recentemente buttato lì) che quest’ultima “è la più grossa città di provincia in Italia”, ma poi non importa molto, anche perché l’ossessione di (non) essere in provincia è una delle più noiose tematiche italiane. Ciò che conta è che Bologna, fra le città a lei simili —  qualitativamente e quantitativamente — è probabilmente la più sporca, disordinata e vandalizzata. Ora, sarebbe esagerato dire che a Bologna regna la paura. Più semplicemente, questa città è un po’ preoccupata dall’imperversare della piccola-media delinquenza, e dalla radicalizzazione violenta della vita politica; preoccupata, insomma, dalle costanti incrinature della legalità e dell’ordine pubblico.



La recente occupazione della Biblioteca di Discipline umanistiche da parte di rappresentanti del Cua (cioè Collettivo Universitario Autonomo — e già il nome è un po’ gaglioffo) è solo l’episodio più recente, che non sarà l’ultimo, nell’occupazione illegittima e illegale di spazi dell’università. Il recente episodio è significativo soprattutto per il nome del suo bersaglio; le parole infatti sono simboli, e i simboli sono la realtà — o almeno una parte molto importante di essa. Devastare una biblioteca intitolata nientemeno che alle discipline umanistiche significa vibrare un ceffone ai valori sbandierati dall’Alma Mater (denominazione ufficiale dell’università bolognese) e smascherare la sua attuale fiacchezza come organismo civico.



Restare però sul terreno della lamentatio significa collaborare involontariamente all’aria di depressione e mediocrismo che circola a Bologna. Proviamo a volare per un momento un po’ più in alto, all’altezza della storia. Il 2017 è il nipote del 1977 — il quale è figlio del 1968 — che a sua volta è erede del 1945, quando Giuseppe Dozza riceve, pare, l’incarico ufficiale di sindaco di Bologna da parte del Governo Militare Alleato (le elezioni seguiranno nel 1946). La scelta del ’45 fu probabilmente la più saggia, date le circostanze; e Dozza è entrato nella leggenda come il miglior primo cittadino che la città abbia mai avuto.



Ma nella mela c’era il baco. Quando una città è governata, per 67 dei suoi 72 anni di vita repubblicana, dalla stessa parte politica (l’eccezione, com’è noto, è la giunta di centrodestra guidata da Giorgio Guazzaloca fra il 1999 e il 2004) — quando ciò accade, la mediocrità è inevitabile. E, nonostante le apparenze, questa rubea mediocritas non garantisce un pacifico tran tran: al contrario, è una palude da cui affiorano tutte le forme di malcontento, tutte le rivalse della violenza opportunistica e sorniona. 

Per esempio: a differenza, ancora una volta, da ciò che appare, il Sessantotto a Bologna non rappresenta (come esso amava automitizzarsi) una rottura con il Pci; bensì porta alla luce e sviluppa ulteriormente quell’idolatria del potere accompagnata da un rozzo machiavellismo (senza la spiritualità di Machiavelli, naturalmente) che è connaturata all’ideologia del Partito con la maiuscola — quell’idolatria e quella rozzezza su cui fin da subito (fino dal preveggente discorso di Togliatti del 1946 a Reggio Emilia su “Ceto medio ed Emilia rossa”) si era tentato di passare una bella mano di vernice rosa senza veramente cancellare il colore originario; e come si sarebbe mai potuto, se questa idolatria rozzamente machiavellica era la ragion d’essere di tutta la compagine?

L’appena detto riguarda evidentemente, in qualche misura, tutta l’Italia; ma la differenza bolognese è la differenza di un particolare mediocrismo, dovuto al dominio schiacciante del post-Partito (non è vero che, come proclamano certi giornali, “l’Emilia non è più rossa”). Il quale post-Partito continua a non volere (a non potere?) fare i conti con il proprio passato. Non ho la supponenza di proporre rimedi; faccio soltanto (per quel poco-o-nulla che conta) una previsione: nulla veramente cambierà a Bologna, fino a che non ci sarà un reale mutamento nel regime politico della città.