Caro direttore,
Vorrei permettermi di provare a rispondere all’intervento di Daniele Serretti sul film Silence di Martin Scorsese, uscito martedì scorso su queste pagine.
Due premesse. Innanzitutto, scrivo non avendo letto il libro di Endo (l’ho appena cominciato), per quanto ne abbia discusso con diversi amici che l’hanno letto, e per quanto mi dicano che Scorsese si è attenuto fedelmente alle linee narrative e ai dialoghi del romanzo.
In secondo luogo, va detto che le accese discussioni che nascono a seguito del film ne dimostrano per lo meno la validità in quanto “opera d’arte” (per certi prodotti cinematografici non è più fuori luogo ormai usare un termine del genere). E proprio in quanto opera d’arte esso va affrontato, seguendo un imprescindibile criterio: non cercarvi messaggi preconfezionati che dovrebbero meccanicamente scaturire dalla “lettera del testo”, dalla narrazione degli avvenimenti, ma pretendere che questi — che per un vero narratore non sono mai un mero pretesto — ci introducano nelle pieghe sempre nuove e sorprendenti della realtà e del cuore dell’uomo, portandoci a toccarne l’insondabile mistero, un mistero difficilmente inquadrabile nei nostri svariati schemi. Si tratta di un criterio tanto più valido quanto più, come per il film in questione, finzione e realtà storica si mescolano profondamente.
Non credo quindi, cominciando ad entrare nel merito della vicenda, che si possa semplicemente affermare che nell’esperienza dei due giovani gesuiti la misericordia diventa strumento e salario di apostasia. L’intento del film non è quello di affermare la validità dell’abiura in casi particolari, giustificandola, o di sottrarre valore alla sacrale esperienza del martirio (peraltro ribadita con decisione dalle scene dei martiri del villaggio all’inizio del film): l’intento è quello di condurci ad immedesimarci con una situazione estrema, che travalica i confini della scelta personale sul martirio (per via della terribile prova a cui i padri sono sottoposti) e che solleva tutti i dubbi più profondi che possono sorgere nel cuore dell’essere umano: perché Dio sembra non agire nella storia? C’è un Dio che ci ascolta? E cosa vuol dire donare la propria vita per Lui, senza cadere nell’orgogliosa affermazione di sé?
Sono domande che sarebbe semplicistico derubricare in fretta alla stregua di dubbi fumosi, e che invece, se si è sinceri, riconosciamo nascere in noi stessi in molte occasioni, specie nelle più dolorose, tanto in chi crede fermamente quanto in chi avverte dentro di sé un senso del divino e della trascendenza della realtà. Il silenzio di Dio non è solamente espressione di un dubbio umano sulla Rivelazione: oltre ad essere un tema che sotto diverse forme ha percorso tutta la storia della teologia cristiana come segno di una irriducibile alterità di Dio rispetto all’uomo (a partire dall’Antico Testamento, come nel caso del profeta Elia, quindi attraverso le riflessioni sul grido di Cristo sulla croce o le Confessioni di sant’Agostino), dal punto di vista della narrazione del film è proprio il fattore che costringe lo spettatore ad un lavoro fondamentale, e per nulla scontato: il confronto fra dialettica ed esperienza vissuta.
Emblematica in questo senso è la scena del dialogo con l’apostata Ferreira: quanto sono persuasivi i discorsi suoi e del mediatore giapponese, funzionario dell’Inquisitore! Sembra impossibile non dar loro ragione. Ma di fronte alla supposta fede confusa dei fedeli giapponesi dichiarata da Ferreira, lo spettatore ha negli occhi le scene dei martiri del villaggio iniziale; nei confronti della necessità della rinuncia alla missione sbandierata ancora da Ferreira, emblematici sono gli occhi sfuggenti di quest’ultimo, segno evidente (fino alla fine) di un’anima tormentata, mai in pace e tesa senza sosta alla propria giustificazione; e infine, a far da contraltare alle suadenti parole sulla misericordia del giapponese stanno le morti e le atroci torture inflitte ai fedeli cristiani dai giapponesi stessi.
Si tratta di un cammino che conduce a scoprire come Dio da un lato sembri rimanere in totale silenzio, quasi come nella vicenda biblica di Giobbe, e dall’altro “parli” attraverso altre vie, calate nella concretezza della realtà. L’esempio più eclatante è quello del traditore incallito Kichijiro. Nel momento in cui Rodrigues, chiuso nella sua gabbia, sta per essere condotto davanti al fumie, grida a Dio: “Se solo ti facessi vedere!”: proprio in quel momento, nella confusione, riappare proprio Kichijiro, che ancora una volta chiede il perdono al gesuita, il quale glielo concede da lontano, in fretta, fra lacrime di irritazione, incomprensione e angoscia. In quel momento, come anche nell’occasione della confessione strappata a Rodrigues già apostata e sposato con una giapponese, Kichijiro è il segno infimo, contraddittorio ma concreto della presenza di Dio nella vita del gesuita: il quale non a caso arriva così a dire, in una profonda commozione: “Anche se Dio è stato silente tutta la mia vita, fino a questo giorno, tutto ciò che faccio e tutto ciò che ho fatto parla di Lui”. Solo a partire da questi presupposti si può capire la frase seguente, che non vanifica nulla di quanto accaduto ma riporta tutto ad un livello più profondo: “È stato nel silenzio che ho sentito la Tua voce”.
La storia di Silence è la storia di una discesa nell’abisso del male, della sofferenza e del dubbio, sulla scorta della paolina kenosis (svuotamento) di Cristo, che conduce ad un esito drammatico, dove i conti sembrano non tornare (come spesso accade nella vita). I due giovani padri dovranno scontare l’infrangersi delle loro certezze contro il mistero della realtà, non per finire nel dubbio ma per riconquistare l’unica certezza fondamentale, il fatto che la fede è un rapporto, d’amore, con Dio. Avviene così che Ferreira e Rodrigues, in una situazione ai limiti dell’assurdo e dagli sviluppi difficilmente accettabili (i giapponesi, in caso di rinuncia all’abiura di Rodrigues, si sarebbero fermati con il loro estenuante e violento gioco psicologico?), compiano lo stesso atto, ma con spirito completamente opposto, il primo come resa personale e il secondo come affermazione di un amore all’altro (vale la pena notare, per inciso, il rischio insito nel costringere altri ad un martirio involontario — come invocano quanti si scagliano contro la scelta del protagonista nel film). E avviene così che due decisioni diverse, come nel caso di Garupe e di Rodrigues, scaturiscano dalla medesima urgenza.
Endo e Scorsese ci conducono per mano in una vicenda drammatica, pregna di contraddizioni, amara se vogliamo, davanti alla quale siamo portati a riconoscere ancora una volta l’insondabilità del mistero di Dio e di tutta la realtà, ma nella quale i cuori di tanti protagonisti tendono inesorabilmente, nella coscienza dei propri tradimenti e del proprio nulla, ad affermare che nelle loro vite ciò che domina è la presenza, silenziosa ma reale, di un Altro.