L’eternità dei profeti si misura sull’immarcescibilità delle loro teorie, che fa sì che esse aderiscano come un guanto al mutare dei tempi. Così è per Marshall McLuhan: basta cambiare la chiave di lettura delle sue teorie e rieccolo attagliarsi ai tempi e ai fenomeni sociologici e massmediali con una sua lettura originale.



Una conferma sta nel libro di Alberto Contri Mc Luhan non abita più qui? I nuovi scenari della comunicazione nell’era della costante attenzione parziale (Bollati Boringhieri, 2017), dove la pietra d’angolo sta tutta in quel punto interrogativo “birichino” che apre molte possibilità, sullo stile della Sibilla cumana (Ibis, redibis etc).



Il libro ha esordito dinanzi ad una platea costituita dall’intellighenzia milanese lo scorso 16 febbraio, al Centro Culturale di Milano con un vero “panel de roi”, costituito, oltre che dall’autore e dal prefatore Derrick de Kerckhove, allievo ed esegeta di McLuhan, anche da Antonio Calabrò (vicepresidente di Assolombarda e direttore della Fondazione Pirelli), Ferruccio de Bortoli (editorialista del Corriere della Sera e presidente della casa editrice Longanesi), Edoardo Fleischner (docente di comunicazione crossmediale nell’Università Statale di Milano) e Vicki Gitto (Group Executive Creative Director Young & Rubicam Brands e presidente dell’Art Director’s Club Italia). 



Insomma, il libro è stato radiografato in molte delle sue declinazioni, che erano davvero tante, avendo affrontato tutte, ma proprio tutte le sfumature (ne hanno contate una trentina, purtroppo non cinquanta!) dell’evoluzione del comunicare umano, dalla nascita del linguaggio (i primi uomini, secondo Contri, parlavano come i Minions…) fino a Internet, i social media e le nuove frontiere che attualmente si stanno svelando.

Derrick de Kerckhove, da quel fuoriclasse che è — d’altronde bisognava avere davvero una o più marce in più per star dietro al “cervello” di McLuhan) — ha tracciato un affresco di fondo, identificando nell’elettricità il soffio divino dell’espansione economica e culturale dell’umanità. 

Edoardo Fleischner ci ha portati a riflettere sui jeux de l’esprit che può fare uno studente di comunicazione crossmediale (i suoi, ad esempio), di fronte ad un’enigmatica e ostica articolessa di diecimila battute sulle turbolenze finanziarie internazionali de Il Sole 24 Ore (è passato di mente al relatore che tre sedie più in là c’era Ferruccio de Bortoli che, del Sole è il rimpianto direttore), delle quali è assolutamente a digiuno. Ebbene, grazie alla guida di un docente “avvertito” ne possono uscire ben 21 forme di comunicazione, dalla più semplice sintesi (per il sollievo di un affannato lettore), fino a un tweet, passando da uno status di Facebook e persino una fiction tv (Il mistero dello spread asiatico?).

Il nostro Virgilio, Alberto Contri, dall’alto della sua esperienza, ha stigmatizzato come la genesi delle campagne pubblicitarie ormai insegua la superficialità, avendo perso le agenzie il proprio imprinting di bottega rinascimentale. Dalle parole di Vicky Gitto un po’ di autodafé in tal senso è emerso, quando, con contrizione, ha riconosciuto che il mondo diventato digitale impedisce una fermata di riflessione.

Nel presentare Antonio Calabrò, l’autore del libro lo ha definito onnivoro riconoscitore di perle librarie e recensore domenicale in quel luogo di puro cazzeggio che è generalmente Facebook. Insomma, colui che, con la sua maturità, riesce a cucire la finezza “antica” della cultura con la modernità distratta del social più in voga.  

Ed è stato perla fra le perle anche l’intervento di Calabrò, che ha esordito riconoscendo l’eccellenza del glossario in fondo al libro, utile a sconfiggere le vecchie abitudini del potere a usare la cortina fumogena dei paroloni per indorare concetti altrimenti semplicissimi.

D’altronde, non sempre la semplificazione esasperata è utile: Calabrò ha ricordato la tendenza nelle scuole italiane di eliminare le prove scritte o lo studio del greco e del latino non perché inutili, ma in quanto difficili, con tutte le ripercussioni culturali sugli alunni di una scuola dalla cultura premasticata. Una luce in fondo al tunnel può essere costituita dal fatto che il libro di carta continua a resistere; il file del pc, infatti, può perdersi o risultare illeggibile per un virus, un bug o chissà che. La lingua — ha sostenuto Calabrò — è fonte di democrazia e, citando Mahler, ha rincarato la dose, affermando che la tradizione non è custode delle ceneri, bensì culto del fuoco. Cosa servirebbero di questi tempi? Dei veri e propri geografi in grado di disegnare mappe culturali, una categoria che via via si sta perdendo, spegnendosi coloro che lo furono e non trovandosi degni successori. Mappe serie e fondate, che mettano in grado chi le usa di distinguere gli scogli dalle ombre. 

Il relatore ha, inoltre, lanciato un anatema sui termini mistificatori che inquinano i nostri giorni. Come storytelling, in sostituzione del più semplice ma pregnante “racconto”; o “evento”, ovvero la definizione in voga per definire quella calata d’ingegno che fa installare le palme in piazza del Duomo a Milano e causa inutili fiumi d’inchiostro al riguardo. Il racconto è un punto focale, secondo Calabrò, dall’inizio dei secoli. Abbiamo smesso di raccontare e se ne scontano le conseguenze. Eppure, i giovani sono affascinati dal racconto (purtroppo il narrare è soggetto a mistificazioni demagogiche: ogni riferimento a persone che vi vengano in mente è puramente… voluto). Senza dubbio, il racconto e il libro sono essenziali per l’avanzamento umano. Uno studente di Harvard che legge un libro e ne sottolinea dei passi è — secondo Calabrò — un pezzetto di speranza. E come dargli torto?

Ferruccio de Bortoli ha esordito con un paradosso, semplice e acuto: un tempo si comunicava meno, ma forse si stava meglio. Quando Calabrò ed io abbiamo cominciato a fare i giornalisti — ha detto — c’era ancora il piombo e i titoli si facevano con i caratteri mobili, come ai tempi di Gutenberg. Tempi che davano il tempo (il calembour è incisivo) di riflettere, di approfondire. Si è persa una visione olistica, che ci offrirebbe la giusta distanza per valutare i fenomeni. Tutti ormai, nell’informarci, facciamo un surfing che ci permette di metabolizzare solo ciò che riusciamo a cogliere con uno sguardo; il che suscita una tendenza alla semplificazione che favorisce la genesi e l’attecchimento dei pregiudizi e ci fa pretendere risposte semplici a questioni complesse. 

Di questi tempi, tutti quanti, sentendosi testimoni oculari dei fenomeni e del tempo in cui vivono, sviluppano un certo delirio di onniscienza; il giornalismo dev’essere in grado di offrire uno sguardo “altro”, in grado d’insinuare il dubbio, affinché si sia un fruitore informato per davvero. E’ il dubbio alla base della vera conoscenza. Inoltre, secondo il relatore, viviamo in un eterno presente, fra fisica quantistica e Nietzsche, che ci ha fatto perdere la dimensione del tempo e appiattire, dimenticandoli presto, gli avvenimenti. In tal modo, ognuno diventa un soggetto “debole”, causando così la morte della democrazia rappresentativa, abbattuta dal voto di pancia di masse. 

La parola dei nostri tempi non è post-verità, che pure fa la sua parte, bensì “sovranismo”. Il libro di Contri — ha concluso l’ex direttore anche del Corsera — è un libro che persegue l’ecologia della Rete, perseguendo la responsabilizzazione dei suoi utenti, affinché, sapendo difendersi dal rumore delle masse, diventino più cittadini, più utenti, più consapevoli.

Chi scrive — autrice di una lunga intervista biografica ad Alberto Contri inserita nel libro — fa il mea culpa, avendo creato quasi un’articolessa come quelle stigmatizzate da Edoardo Fleischner. I temi toccati nell’incontro, però, erano così essenziali per la nostra quotidianità di cittadini, che occorreva dipanarli con un minimo di concatenazione raziocinante. E l’amore per una comunicazione… ecologizzata.