Nel Messico oggi alle prese con la costruzione del muro con gli Stati Uniti, si celebra un anniversario importante: il 5 febbraio del 1917 infatti, cento anni fa, veniva promulgata la Costituzione di Querétaro, che prendeva il nome da una città messicana dove, cinquant’anni prima, era stato fucilato Massimiliano d’Asburgo, che le diplomazie europee avevano inviato come sovrano nel paese centroamericano con la speranza di stabilire dei legami forti tra il vecchio continente e il nuovo, ove andava ormai imponendosi — dopo la fine della Guerra di Secessione col trionfo dell’Unione — la potenza degli Stati Uniti. La Costituzione di Querétaro rappresentava l’esito della Revolución, la rivoluzione messicana del 1910 di cui furono icone popolari il brigante Pancho Villa e il sognatore Emiliano Zapata, ma che in realtà fu realizzata con il decisivo apporto degli Stati Uniti appoggiando il colpo di stato di Francisco Madero.
Fin dai primi anni della loro indipendenza, gli Stati Uniti rivolsero una particolare attenzione alla ex colonia spagnola. Ai primi dell’Ottocento incorporarono la Lousiana e la Florida. Oltre ai commerci vi impiantarono ben presto un’aggressiva attività missionaria protestante, allo scopo di “delatinizzare” quelle regioni la cui popolazione era quasi interamente cattolica, compresi gli indigeni vale a dire le tribù pellerossa, a cui non toccò in sorte la conversione al protestantesimo, ma l’espulsione o la morte.
A metà del secolo gli Usa erano riusciti a creare un incidente diplomatico col Messico, a cui fece seguito una breve ed intensa guerra di annessione: la bandiera a stelle e strisce sventolò in tre nuovi stati: il Texas, la California, il New Mexico.
Nel 1853 fu poi volta dell’Arizona. Un territorio vasto quanto l’intera Europa Occidentale, e dalle immense risorse naturali, era passato in pochi anni sotto il governo di Washington.
Chi aveva poi fomentato la ribellione contro Massimiliano d’Austria, finanziando la rivolta armata del generale Juarez? Sempre gli Stati Uniti, che come detto non volevano la vicinanza di una monarchia, per di più retta da un sovrano cattolico. Alla vigilia della prima guerra mondiale una nuova scoperta, quella del petrolio, aveva ulteriormente accentuato l’interesse nordamericano per i territori al di là del Rio Grande.
Dal 1910, anno in cui era scoppiata la Rivoluzione di Madero, fino al 1916, il Messico era stato sconvolto da una feroce lotta per il potere. Liquidate le figure popolari di Villa e Zapata, una nuova élite politica rivoluzionaria andò formandosi nel paese: i nuovi generali della rivoluzione del Nord, i borghesi divenuti militari senza alcuna preparazione, abili solo a condurre mattanze e rappresaglie; e gli imprenditori senza scrupoli che si arricchirono offrendo sul mercato statunitense i prodotti agricoli requisiti dalle truppe. In particolare nel conflitto intestino alle forze rivoluzionarie ebbe modo di emergere e di imporsi la nuova classe dirigente di uno stato, quello di Sonora, che riuscì ad imporre i propri capi, i più abili e spregiudicati, a tutto il paese.
Fu sull’élite rivoluzionaria sonorense, dalla quale uscirono Carranza, Obregón e Calles (questi ultimi sarebbero stati in seguito i feroci persecutori dei Cristeros) che puntarono le loro carte gli Stati Uniti: moderna e dalle intenzioni modernizzatrici, ideologicamente pragmatica e duttile, era la depositaria predestinata dei progetti di sviluppo economico del paese, dell’entrata definitiva del Messico nel grande circuito economico-finanziario internazionale.
Un’altra caratteristica di questa classe dirigente era l’anticlericalismo, che in un Paese di tradizione cattolica come il Messico era un nemico venuto da lontano, da molto tempo e con forti insediamenti nella Weltanschauung della borghesia, nelle università e nei giornali: un prodotto delle logge massoniche che nel Paese avevano agito da molto tempo, con un meccanismo di penetrazione sperimentato e consolidato fin dai tempi della rivoluzione francese.
Venustiano Carranza fu l’uomo che mise fine alla fase più convulsa della Rivoluzione e che produsse la Costituzione di Querétaro. Riconosciuto come “legittimo dittatore del Messico” dagli Stati Uniti, grazie ai centomila fucili ed ai trenta milioni di cartucce fornite dal presidente Wilson, Carranza riuscì a rinsaldare il suo dominio, finché nel dicembre 1916, grazie alle elezioni in cui votò soltanto il 2 per cento della popolazione, divenne grazie a questo consenso non certo plebiscitario l’unico padrone del Messico. Promise allora di dare, in meno di due mesi, una nuova costituzione: radunata un’assemblea composta prevalentemente da suoi amici, militari o delinquenti arricchiti innalzati al potere dalla rivoluzione, il 5 febbraio 1917 il testo fu pronto, secondo i termini previsti. Carranza lo fece votare immediatamente e si autoproclamò presidente della Repubblica.
Fu la Costituzione di Querétaro, tuttora in vigore, pur con successivi emendamenti, sulla quale (e oltre la quale, quando era opportuno) i successivi governi messicani pretesero di dare parvenza legale ai propri atti criminosi.
In essa si trovavano enunciazioni di principio che garantivano un’avanzata legislazione sociale, ma che rimasero in gran parte inapplicati, così come ogni ipotesi di riforma agraria tanto attesa nel paese. Clamoroso era poi il contenuto di un articolo, il 27, che in conformità allo spirito di rinnovato e vibrante nazionalismo che caratterizzava il nuovo corso politico, dichiarava i beni del sottosuolo ed in particolare i giacimenti petroliferi di esclusiva proprietà dello stato. Questo inatteso voltafaccia verso l’alleato statunitense — che veniva a trovarsi escluso dall’affare del petrolio — si può spiegare in vari modi: il governo che doveva fornire il supporto ideologico ad una classe dirigente che usciva da sei anni di guerra civile aveva bisogno di mostrare un po’ di orgoglio nazionalistico al popolo. A ciò si deve senz’altro aggiungere una forte dose di levantino opportunismo da parte dei nuovi dirigenti: essi ebbero il modo di esercitare una forma di ricatto sugli Stati Uniti, alzando il prezzo della propria “amicizia” e disponibilità.
Quello che rimase inalterato, e anzi venne inasprito, era l’odio contro la religione. La Costituzione si accanì contro la libertà di coscienza. L’articolo 3, ad esempio, recitava: “L’insegnamento è libero; però quello impartito negli istituti ufficiali di educazione sarà laico, come pure sarà laico l’insegnamento primario elementare e superiore che si impartisce negli istituti privati; nessuna comunità religiosa e nessun ministro di qualsiasi culto può istituire e dirigere una scuola di istruzione primaria”. Questo articolo venne integrato dal regolamento del ministero della Pubblica Istruzione, che prescriveva che, tanto nel nome della scuola quanto nell’abbigliamento degli insegnanti, negli arredi, nei mobili, nei quadri, nelle espressioni, nei gesti dei maestri o degli allievi non vi fosse il minimo riferimento a Dio. Questa proibizione inoltre si estendeva anche alle abitazioni private degli insegnanti.
Altri articoli manifestavano chiaramente la volontà dei legislatori di schiacciare ogni espressione della coscienza religiosa: “L’esistenza di qualsiasi ordine e congregazione religiosa resta proibito” (art. 5); “ogni culto è proibito fuori delle chiese, e nelle chiese il culto sarà sempre sottomesso all’ispezione dell’autorità civile (art. 24); “le chiese sono proprietà dello Stato. Tutte le associazioni religiose sono incapaci di acquistare, possedere o amministrare beni immobili” (art. 27); “I diversi stati del Paese si riservano il diritto di fissare, con leggi particolari il numero dei ministri del culto. Hanno diritto ad esercitare i ministeri di culto soltanto i preti messicani di nascita; hanno però la proibizione di biasimare la costituzione o le persone che esercitano l’autorità” (art. 130).
Lo stesso articolo 130 così si esprimeva riguardo alla libertà di stampa: “Le pubblicazioni periodiche di carattere confessionale, tanto per il programma che per il titolo, o semplicemente per la loro tendenza abituale, non potranno commentare le attività politiche nazionali, nè informare sopra gli atti delle autorità del paese nè dare notizie quando abbiano relazione diretta con il funzionamento delle istituzioni pubbliche”.
I cattolici messicani, ovvero il 95 per cento della popolazione, si ritrovarono a far parte così di una Chiesa priva di personalità giuridica, imbavagliati e defraudati persino della facoltà di muovere critiche e di fare opposizione. Il governo chiedeva sottomissione e ubbidienza assoluta, e una applicazione rigorosa della legge.
Il colonnello Adalberto Tejeda, ministro dell’Interno, autorizzò i suoi collaboratori a fare osservare con il massimo scrupolo le leggi costituzionali, utilizzando non solo le forze di polizia, ma anche l’esercito.
L’esecuzione di queste direttive non tardò ad avere luogo: undici tra arcivescovi e vescovi vennero esiliati. Centinaia di religiosi e di sacerdoti vennero cacciati e duemila scuole cattoliche vennero chiuse. Il governo poliziesco andò persino oltre le indicazioni costituzionali, facendo ampio uso dell’arresto, della detenzione, della violenza contro sacerdoti e laici.
I seminari venivano svuotati con la forza e gli studenti caricati su camion e deportati. Era l’inizio della persecuzione che avrebbe anni dopo portato alla Cristiada.