L’editore Fazi conferma di riuscire a fare operazioni interessanti, oltre che commercialmente positive. Ricordiamo quando anni addietro rilanciò Gore Vidal, per lungo tempo espulso (anzi: ignorato) dal canone ufficiale delle sinistre e del radicalismo, salvo diventarne, poi, idolo tardivo alla pari, quasi, di Zinn e Chomsky. Oggi Fazi rilancia un giallista, tra noir, hard-boiled, umorismo e critica sociale, la cui fortuna è stata in vita eclissata dalla contemporaneità col grande successo, Oltralpe e non, di Simenon.
Stiamo parlando di Léo Malet, personalità da incorniciare per la varietà delle esperienze che colleziona, ma anche per il mantenimento, nei decenni, di una qualità letteraria sempre fuori moda e sempre difficilmente questionabile. Léo Malet, l’anarchico conservatore, il ribelle mai sfiancato dalla vita (nemmeno dalle atrocità del lager), eroe anticonvenzionale nel suo lungo e sereno anonimato, che crea un investigatore privato decisamente particolare, il livido Nestor Burma. Detective a contratto che colleziona tutti i cliché del genere e, appunto per questo, cammina leggiadro tra satira e autobiografia.
Anche il nostro ha, come Malet, trascorsi anarchici. Malet scriveva, giovanissimo, sulle riviste d’area. Gratuitamente. Viene nostalgia a pensare a quel che resta della stampa politica odierna, spesso fideistica, cammellata e retribuita. Nulla a che vedere con la qualità di quella che fu: coraggiosa, sperimentale, indefessa. Burma ha una passione smisurata per alcolici e belle donne, ma anche qui l’attitudine sopravvenuta e conservatrice di Malet tiene a bada il suo protagonista: non fa il traditore, il dongiovanni impenitente. È spesso amante dolente, nelle retrovie del desiderio. Amante incondizionato e indisciplinato (e non siamo così sicuri che ciò descriva un ossimoro). Anche con l’alcool, Burma, sì, non scherza, ma si mantiene placido: mai lo si vede inanellare liquori per pestarsi con naziskin, rivali di cuore, criminali o poliziotti. Al massimo, lo troviamo in qualche caffetteria, ciucco e pensieroso, a contemplare i successi spesso sorprendenti delle sue indagini e le altrettanto sorprendenti pecche che costellano la sua crescita personale e la sua vita sentimentale.
Il vero gioiello della collana è probabilmente Nebbia sul ponte di Tolbiac, tributo a una Parigi di periferia, già quasi “banlieue”, dove convivono industriali rampanti, associazioni di carità, immigrati che portano in Francia il frazionismo politico-religioso estremo delle loro terre d’origine, intrattenitrici, artigiani dignitosi.
Malet, in questo, è scrittore profondo e profondamente d’atmosfera. Come se i due sottogeneri tipici della prima letteratura di massa, noir e appendice, si saldassero e, per tale alleanza, trovassero nuovo, più profondo, timbro qualitativo. Burma si muove a suo agio nel suo disagio: ovunque vada e chiunque frequenti, il suo spleen è sempre lo stesso, pari al suo indecifrabile buonumore. Non brilla nemmeno per intelligenza, ad essere sinceri: la svolta delle inchieste è più spesso fattuale che soggettiva. Un cadavere, un indizio, una prova, non un’intuizione, non una formula algebrica o un trattato di logica giuridica: questo è il motore delle indagini di Burma.
Eppure, è proprio lo sghembo detective a canalizzare quel vortice di accadimenti, con la sua empatia spontanea per il genere umano, il sostegno offerto ai deboli, in primo luogo quelli che non chiedono favori, ma che implorano giustizia.
Da questo punto di vista, l’anarchico sopravvissuto al nazionalsocialismo e l’anarchico che sopravvive a vedette allegre, a cocktail, a sconfitte politiche e alla tagliola intransigente della polizia (procuratori, commissari, ispettori), si somigliano.
Non fanno professione di Dio, ma il loro disincanto ha poco a che fare con la laicità autosufficiente, col razionalismo materialista, e pure col fondamentalismo di chi si sente sempre e comunque sia marginale, sia ineccepibile.
Sono cultori dell’errore, perché è l’errore umano che origina la necessità della sua riparazione. La sensibilità vince sulle sparatorie, sulle soffiate, sulla stampa (quella amica e quella nemica). Malet ha la forza di raccontare Parigi a tutto tondo: la città gigante della modernità, la città inquieta della decadenza, la città dello Stato per eccellenza. Non gliene sfugge neanche un vicolo, neanche un distretto. In una Parigi così, a noi tutti è dato di sentirci un po’ Nestor Burma. Non solo all’ora dell’aperitivo.