Ci sarà una giornata della vita di Enzo Ferrari sfuggita alla penna di Luca Dal Monte? La sua monumentale biografia del Drake, Rex (Giorgio Nada Editore-Giunti 2016, 1100 pagine, 28 euro) ricostruisce infatti le giornate del fondatore della scuderia del Cavallino con precisione millimetrica. Dal Monte (già direttore della comunicazione di Maserati e responsabile della comunicazione Ferrari) disegna il ritratto di un uomo spigoloso, o meglio, con una scorza dura che nascondeva una grande sensibilità. Già l’introduzione infatti evidenzia la contraddittorietà del personaggio: il suo nome era pronunciato con ammirazione in tutto il mondo, ma non passava giorno senza contrasti domestici con la moglie Laura, mentre Lina, la donna legata a lui per tutta la vita, non riuscì mai a sposarlo; il primogenito, Alfredo detto Dino, morì a ventiquattro anni; il secondogenito visse una vita separata fino a vent’anni; dei piloti aveva bisogno, ma con loro, pur essendo stato anch’egli pilota, aveva un rapporto tempestoso, dato che li considerava un male necessario e, se solo fosse stato possibile, avrebbe preferito che le sue macchine si guidassero da sole.
Phil Hill, campione del mondo nel 1961, sintetizzò bene questo aspetto: “Ferrari è come un re e noi siamo i suoi cavalieri”: ed ecco da dove viene il titolo del volume. C’era intorno a lui una barriera, respingente e insieme protettiva: persino gli occhiali scuri che portò per l’ultimo trentennio della sua lunga vita (1898-1988) erano una protezione dalla curiosità del mondo (ma erano anche, in fondo, un modo per spiazzare l’interlocutore, e Ferrari, da fine psicologo, lo sapeva bene).
In fondo, però, tale riserbo era anche riflesso del fatto che si trattava d’un uomo del diciannovesimo secolo che visse le potenzialità e le contraddizioni del ventesimo con lo sguardo sempre proiettato al futuro: e così rimase sempre, dalle prime fascinazioni per l’universo automobilistico (in anni in cui il passaggio di un’auto per Modena era un evento di cui dar conto sui giornali), sino al novantesimo compleanno, quando ancora stava facendo progetti, tanto che la sua auto preferita, diceva, era sempre “la prossima”.
Il suo carattere e il suo modo di fare potevano rivelarsi molto duri: come era capace di motivare le persone, Ferrari era anche capacissimo di mettere gli uni contro gli altri, convinto che l’antagonismo fosse salutare per la scuderia. E anche se qualcuno lo definì “un costruttore di macchine e un distruttore di uomini”, la stessa persona non poté non aggiungere che, nonostante tutto, chi entrava nell’orbita del Drake non avrebbe mai più voluto uscirne. Addirittura, non mancò chi arrivò a chiamarlo, dopo l’ennesimo incidente mortale di un pilota, un “Saturno ammodernato”, il quale, mutatis mutandis, continuava, implacabile, a divorare i suoi figli.
Ferrari era però anche e soprattutto un italiano portatore di un’idea di orgoglio nazionale che affondava le radici in una visione della Patria di matrice risorgimentale: e a tale puntiglio dobbiamo appunto una scelta che ha segnato la storia dell’azienda.
Quando, infatti, alla fine della Grande guerra Ferrari aveva cercato lavoro in Fiat, gli era stato risposto sdegnosamente che non ci si poteva accollare l’onere di tutti i reduci. Ma quando negli anni Sessanta egli capì che, per la sopravvivenza della scuderia, doveva tornare a bussare alla Fiat, non esitò un attimo, anche se in precedenza era stato seriamente corteggiato dalla Ford.
Ferrari sapeva — e spesso ripeteva — che gli italiani perdonano molto, ma mai il successo: la sua vita è stata una continua ascesa, costellata però da lancinanti dolori (non a caso il volume di memorie del 1962 si intitola Le mie gioie terribili). Rex non deve intimorire con la sua mole: le pagine scorrono veloci, contrapponendo serratamente le vicende della scuderia al privato dell’uomo, duramente provato dalla morte dei suoi cari, tanto da dire: “Assistendo alla morte di persone tanto care, viene spontaneo domandarsi: che cosa ci resta? Ma poiché l’uomo è una bestia con uno spirito d’adattamento formidabile, mi sono convinto che si può imparare a vivere senza amare la vita e soprattutto senza capire il perché si è venuti al mondo”. Dalla lettura, insomma, emerge davvero un ritratto a tutto tondo di quello che Enzo Biagi aveva definito “uno dei pochi italiani da esportazione”.