Persone singolari, i poeti. Quelli veri, intendiamo, quelli per cui i versi sono una lingua, e per cui la pratica di questa lingua non tende — eliotianamente — a “esprimere se stessi”, ma piuttosto a evadere da sé. A inoltrarsi, cioè, nel mondo, in quel mondo che tanto più ci affanniamo a dominare nei particolari, tanto meno ci troviamo capaci di conoscere nel suo insieme. 



È l’evidenza più immediata che emerge dalle lettere, da poco pubblicate in Italia, di Saint-John Perse a sua madre (Lettere a mia madre dalla Cina, Medusa, 2017, 104 pp.). Chi sia Saint-John Perse non lo sveleremo qui, se non per cenni: diplomatico di mestiere, ci basti dire per rendere l’idea che vinse il Nobel quando il premio ancora non era assegnato alle buone intenzioni e che poeti di calibro non proprio minore come Eliot, Rilke e Ungaretti vollero tradurne l’Anabase, l’opera più nota e ambiziosa.



E proprio all’attività diplomatica, alla sua quotidianità, si riferiscono queste memorie cinesi. Scritte dal poeta tra il 1917 e il 1921, durante la sua missione in Estremo Oriente, le lettere — tradotte da Luana Salvarani e introdotte da Alessandro Rivali — sono infatti senz’altro una ghiottoneria per i non numerosi cultori del poeta francese. Ma sono tali, per stile e argomento, che possono essere lette con grande piacere e profitto anche da chi la poesia la pratichi poco o, pur praticandola, colpevolmente non sappia di chi stiamo parlando. Perché leggendole ci viene incontro una preziosa dimostrazione di come il bello scrivere sia una necessità e un piacere universali, visto che al bello scrivere va sempre — connaturale e contemporaneo — il bel pensare. E al tempo stesso, un’ulteriore testimonianza di come il bello scrivere e il bel pensare siano pratiche che, costeggiate con costanza e coraggio, rendono profetici: capaci cioè, di immaginare quel che si sa sentire ma non si può vedere.



Basta aprire a stralcio questo prezioso libretto per rendersene conto. Così, accanto a curiosità relative ai suoi rapporti letterari non eccelsi (“non voglio più sapere niente della vita letteraria. Ho scritto solo a Valéry, per ringraziarlo della Jeune Parque”, p. 31) o accenni alle amicizie familiari di alta classe (quando fa cenno alla madre del “vostro vecchio amico Odilon Rédon“, p. 37), troviamo acute osservazioni sullo spirito cinese, descrizioni della vita quotidiana e dettagli sui rapporti di lavoro. Tutto quello che, insomma, ci si aspetterebbe da un figlio poco più che trentenne che scrive alla famiglia lontana — le lettere impiegavano quattro, cinque, a volte sei settimane per arrivare, se arrivavano. Ma soprattutto — inizialmente tra le righe, poi pian piano ben dentro le righe — troviamo quella capacità profetica tipica della grande poesia, quella capacità per cui dall’osservazione e dalla contestualizzazione attente di pochi particolari, ci si scopre in grado di immaginare, di rendere cioè in figura, l’invisibile.

Sono anni convulsi, quelli raccontati qui. Anni in cui una guerra mai vista prima sta per terminare e una peggiore già inizia a prepararsi, almeno per chi voglia coglierne i segni. Per questo, nelle lettere a cavallo della Conferenza di Pace, quella stessa attenzione ai segni che rende amici il cavallo mongolo Allan o la zanzara che ogni giorno va a fargli visita (Lettera del 2 febbraio 1918), si fa portatrice in Perse di visioni future, a volte ancora indefinite, a volte singolarmente e drammaticamente esatte. Vediamo così, per esempio, l’appressarsi di una pace a tal punto vendicativa e miope da preparare il terreno a una nuova tragedia. E non lo vediamo con la vaghezza che sempre si rimprovera alle cassandre per sminuirne le intuizioni, ma con chiara visione di cause attuali e di conseguenze a venire: “Il destino della Cina nuova” scrive il 27 dicembre del ’18, quando si stanno preparando i corpi diplomatici per la Conferenza, “porta in sé meno mistero di quanto si crede, ma in Europa, per tutto ciò che concerne l’avvenire, c’è una pigrizia estrema della mente a considerare le cose in prospettiva futura di più di cinque o dieci anni, mentre ogni equivoco in cui ci si attarda ci espone fatalmente all’irreparabile“. O, con la stessa naturalezza, vediamo nella descrizione attuale del suo unico vero amico cinese, Lu Tseng-tsiang, ministro degli Affari Esteri cinese e inviato del governo per le trattative, la predizione della sua vita futura e del suo intersecarsi con le vicende della storia universale. Così, se a conferenza terminata, le dimissioni di Lu da ministro — seguite alla mancata restituzione dello Shandong e alla conseguente negazione della firma cinese sul trattato di pace — fanno temere a Perse “che si ritiri dalla vita pubblica adducendo motivi di salute (Lettera del 21 aprile 1920)“, già in precedenza, descrivendone il venturo arrivo al tavolo delle trattative, lo immaginava “nell’avversità o nella solitudine, finire la sua vita in qualche monastero d’Europa (Lettera del dicembre 1918)“: cosa che puntualmente avverrà nel 1926, quando alla morte della moglie Lu prenderà i voti come monaco benedettino in Belgio (sarà ordinato sacerdote nel 1935)!

I segni, dunque, l’attenzione ai segni. E, insieme, un ideale di servizio che non è rinuncia di sé ma uso di sé e dei propri desideri. Quell’uso di sé asservito a uno scopo ultimo che — dopo averlo fatto legittimamente brigare per avere una posizione definitiva in Cina — gli fa cambiare idea perché lo scopo, mutate le circostanze, non ha più scopo: “Inutile dirvi che lascio cadere ogni progetto sulla posizione di Consigliere diplomatico alla Presidenza della Repubblica cinese. Non avrebbe più alcun obiettivo, non offre più alcun interesse o possibilità di azione utile, sarebbe assai precario e potrebbe anche, di scorcio e per equivoco, farmi sospettare di parassitismo. La mia visione del futuro della Cina, per quanto personale, è troppo chiara perché possa ignorarla (Lettera del 21 aprile 1920)“.

Grande poeta, amante della vita e politico di razza. Questo fu Perse; e chi lo ama, ama pensare che la coincidenza non sia fortuita, ma sostanziale.