Gli ingredienti sembrano, ancora una volta, quelli ben noti. Da un lato, la maggioranza del Partito democratico legatasi all’ex premier Renzi, riunita, manco a farla apposta, in kermesse, con megaschermi, voucher, buffet. Dall’altro, i piccoli cenacoli socialdemocratici dei fuoriusciti dal Pd, alle prese con l’ennesimo movimento destinato a riaggregare le varie appartenenze di sinistra, ma, a quanto pare, già imbrigliato tra le sigle sovrabbondanti, i distinguo da ceto politico, i simboli che mancano.
Lo stile comunicativo è realmente differente. Grazie alla sovraesposizione mediatica di Matteo Renzi negli ultimi cinque anni, il linguaggio suo e dei suoi sembra paradossalmente più antico. Renzi individua tutti i temi di pancia, non li declina né dalla sponda liberal-democratica né da quella socialista. Li proclama e annuncia che bisognerà lavorarci (i titoli non mancano, le ricette non sono conosciute). Renzi, in questo, è ancora una volta magistrale. Come la sua riforma costituzionale, sonoramente sconfitta al referendum, ha provato a far breccia attraverso diktat e leitmotiv ovviamente condivisibili e condivisibilmente ovvi (meno politica, meno burocrazia, ricambio generazionale), così l’ennesimo palasport sala-congressi sold out rimbomba di urgenze squadernate in fretta. Fisco, imprese, lavoro, giovani, fine vita, Europa … Tutti temi profondamente avvertiti.
I leader della miniscissione, al contrario, gestiscono il solito contrappasso: hanno tratto legittimazione da un sentimento popolare avvolgente, energico, caloroso. Gli rispondono con tortuose analisi sul sostegno critico al governo, sulla collocazione europea del partito (quale?), sulle alleanze, sulle aggregazioni, su come e chi federare.
Il mito delle due sinistre è duro a morire; sono morti i fatti che lo sostenevano. I massimalisti e i riformisti, i rivoluzionari e i gradualisti, gli antagonisti e i democratici, i moderati e i radicali: distinzioni siffatte direbbero davvero qualcosa se descrivessero contrapposizioni sostanziali.
L’impressione, però, è che tanto Renzi quanto i suoi detrattori abbiano smesso (se mai avevano iniziato) di sorvegliare diversi orizzonti di senso. Fanno, piuttosto e piuttosto sciattamente, la guardia a pezzi di simbologie mal ricuciti. Il mito delle due sinistre storicamente richiama molti momenti drammatici, non è il caso di rispolverarli tutti: ciò che la prima volta è tragedia e la seconda è farsa, che mai potrà diventare alla millesima?
Con lo scontro di potere tra le sinistre istituzionali nostrane poco c’entra il congresso di épinay del 1971, quando Mitterrand prese il potere nella riunificata galassia della socialdemocrazia francese, con un programma decisamente istituzionale e ben poco rivoluzionario ma con un’abilità sconfinata, perché riuscì a farsi maggioranza pur partendo da una mozione che aveva avuto il 15 per cento dei consensi. E nulla sembrano avere a che spartire renziani e antirenziani col programma di Bad Godesberg dei socialdemocratici tedeschi, linea guida della sinistra istituzionale dal 1959 al 1989. Molti irenici cantori della storia a proprio uso e consumo elogiano l’assise dei socialisti tedeschi come vero momento di rottura tra una sinistra liberale, riformatrice ed europeista, e una filo-sovietica, oltre che illiberale, stalinista.
In realtà, non andò proprio così, in parte perché Bad Godesberg e il suo manifesto furono “rottamati” (eh, sì, rottamati!) nel 1989, proprio quando cadeva il muro di Berlino, sancendo, in effetti, la sconfitta di entrambe le sinistre rappresentanti istituzionali del lavoro (quella socialista sovietica, quella socialdemocratica assistenziale). E, soprattutto, il programma di Bad Godesberg, pur accettando l’elettoralismo democratico, era, nei fatti, spiccatamente dirigista nella pianificazione economica e nell’erogazione delle prestazioni sociali. L’influenza del marxismo sulla socialdemocrazia in Germania era fortissima: prova ne sia che la legge fondamentale tedesca descrive l’unico, vero, caso al mondo di costituzione federale accentuatamente proteso alla difesa dei diritti sociali.
Il Pd in camicia bianca e gli eurosocialisti con la cravatta nera e sottile non sono all’altezza nemmeno del Labour britannico degli anni Novanta, quando Blair impresse ai laburisti un’immagine più solare e “scamiciata” rispetto a quella del “partito nello Stato”, dell’accolita di socialisti ortodossi che gli anni Ottanta avevano votato alla sconfitta. Il blairismo va bene per le economie espansive, allarga, liberalizza, favorisce incroci: può diventare anche proibizionista e anche acriticamente atlantista, perché l’impressione di società percepita partecipa ancora di un clima di libertà, crescita, possibilità di sviluppo. Il blairismo, peraltro, pur spesso additato a morbo della slavina delle sinistre verso destra, prevedeva investimenti enormi verso il settore dell’istruzione ed era prevalso, con sofferenze e lieve distacco, in un partito di correnti dove c’erano (e ci sono ancora) tenaci blocchi filo-sindacali e non occasionali revisionisti trotzkisti.
Possiamo concluderne che dove c’è conflittualità naturale a sinistra, anche quando predomina la parte più incline al libero mercato, all’accezione meramente nazionale dell’ordine pubblico, alla contaminazione coi gruppi di pressione, ci sono idee in movimento. Posizionamenti veri, concretamente osservabili, riconosciuti. Idee in cammino. Siamo sicuri che si vedano oggi idee in cammino tra queste due sinistre italiane, che l’appellativo di sinistra si litigano ogni giorno, senza nemmeno sapere perché?