Odessa è una delle più affascinanti città europee. Lo è la sua composizione etnica, la sua indiscutibile varietà religiosa, che va dall’ebraismo al neopaganesimo, passando per tutte le appartenenze delle Chiese cristiane. Lo è la sua bellezza contrariata, continuamente esposta al magnetismo del Mar Nero e a una costellazione di sobborghi che costituiscono la spina dorsale del sottoproletariato cittadino. Non stupisce perciò che una delle più belle raccolte di racconti di tutto il Novecento parta proprio da quei quartieri dormitorio, per giungere sino all’oggi, con le sue metafore, le sue iperboli a volte studiate e a volte sboccate, i suoi personaggi in bilico tra legale e illegale, umano e disumano. 



Stiamo parlando dei Racconti di Odessa del drammaturgo Isaak Babel’: un pugno di storie che descrivono la criminalità di origine ebraica e i suoi costumi a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta del secolo scorso. Anche se l’ambientazione sentimentale dell’antologia è pur sempre il quartiere della “Moldavanka”, vero e proprio ghetto anche quanto alle complesse vicissitudini sociali dei suoi abitanti, è in fondo tutta la città che permea le pagine del libro. 



Odessa è una città mercantile e il dinamismo economico che la connota è quello che produce grandi avvicendamenti nelle categorie e nelle classi sociali. Così, nelle pagine di Babel’, i veri possidenti non sono tanto i nobili decaduti (strutturazioni della proprietà simili al latifondo si trovano nell’entroterra russo, più che in zone costiere), quanto i droghieri del centro, gli armatori, persino gli osti e le ostesse che non disdegnano di incrementare gli introiti delle locande col contrabbando. 

Le dinamiche criminali di Odessa non ci sembrano troppo diverse da quelle che ci riconsegna la cronaca giudiziaria di tutti i tempi: continui riequilibri tra generazioni diverse di delinquenti, uno zoccolo duro di vecchi banditi che spesso scende a patti con l’ingordigia delle nuove leve, senza riuscire a tramandare davvero i valori delle generazioni passate, litigi e contenziosi familiari che formano soggetti disagiati, alienati, disillusi, sofferenti. Eppure in grado di macchiarsi delle colpe più gravi.  



Per quanto i personaggi di Babel’ vivano in un epos tutto loro, che può apparire quasi sconclusionato nel linguaggio inutilmente altisonante e nelle cupidigie di ogni giorno, il vecchio capobanda Froim e lo scalpitante e giovane Benja Krik meritano di figurare tra i grandi tipi letterari dell’antieroe. L’uno è il corpulento custode di un’epopea cittadina due volte strozzata: prima dall’affarismo lecito, borghese, intraprendente e miscredente che fa strame del legame sociale; poi dalla polizia politica, dalla rivoluzione socialista, dalla sua immancabile burocrazia giudiziaria, amministrativa e legalista. L’altro è il perfetto ritratto di tutti i dannati che si svegliano col sogno in testa di diventare caporione, scavalcando le gerarchie criminali come solo palliativo per rancorosità sociali che non hanno né il coraggio né la cultura di guardare negli occhi. 

Il giovane “Re” Benja è leader di una banda di balordi che batte in lungo e in largo i quartieri di Odessa, col pugno di ferro, gli informatori confidenziali, gli amori sbagliati e le famiglie allargate. Laddove Froim è il depositario di una memoria storica soppiantata, Benja Krik è il giovane violento che scambia onore personale e dovere di resistenza ad ogni ostacolo. Il Mar Nero vigila sulle opposte inquietudini, mentre la Gpu (il direttorato politico dello Stato comunista) ha licenza di mettere a ferro e fuoco la città, i renitenti, i riottosi, gli irriducibili.