Sergio Staino lo ha detto in pubblico, facendo sorridere anche l’interessato, solitamente impassibile, che le vignette di Altan sono filosofiche, sganciate da un debito immediato alla cronaca. Ed è in forza della loro apparente inattualità che restano poi così attuali. Che si tratti del dilemma interiore di una delle sue donne opulente e bellissime che inciampa nella melanconia, osservando di non essere sicura di avere buon gusto, dopo aver appena asserito: “Io mi piaccio” o dei tormenti politici di Cipputi che risponde “Troppo comodo” al compagno che dice: “Uniti questa destra si può batterla”, Altan sembra sempre ironizzare, partendo da una dimensione fuori dal tempo. È il distacco tipico dell’umorista — e non del comico e del satirico — indagato da Freud nel breve articolo L’umorismo (1927), dove attribuisce il sollievo ricavato dal lavoro intellettuale dello humor ad un bonario spostamento intrapsichico, come quando un adulto osserva i tormenti e le angosce infantili e dall’alto della propria esperienza ne sorride.
Altan esordì a vent’anni, nel 1962, sul periodico Le Ore prima versione, ovvero prima che diventasse hard, e poi, grazie a un’amica segretaria di redazione, iniziò pubblicare le sue vignette su Playman. Ma è nel 1974 che Altan, ateo senza rimpianti e senza ostentazioni, inizia il lungo sodalizio con Linus, pubblicando la striscia dal titolo Trino, oggi raccolta nell’omonimo volume edito da Gallucci (2009). Che si tratti di un’improbabile reminiscenza da catechismo o forse di un’eredità inconscia – come nel caso dei celebri romanzi a fumetti I nostri antenati (Rizzoli 2009), vale a dire Colombo, Casanova e lo sgangherato Franz, un anti mercantilista e proto anti-capitalista Francesco D’Assisi — l’intuizione incompiuta di Trino merita ancora di essere sfogliata con curiosità e simpatia.
Trino è un dio creatore operaio che fatica a essere trinitario, imprigionato in una dialettica servo-padrone che sfuma a volte nella dialettica di un padre (totemico) col figlio, sempre piccolo e incapace per definizione, che lo venera e lo detesta a un tempo. Altan assicura che la religione non c’entra. E in effetti la sua striscia racchiude il principio di un’impossibile alleanza e di un’impossibile società pattizia tra due soggetti che non possono se non contrapporsi e svilirsi l’un l’altro. Una trinità incompiuta che si risolve nel circolo vizioso di un legame senza alcuna via di fuga nella terza persona, come esito profittevole, e pertanto risolutore, dell’inconcludente vortice dialettico.
Il tratto di Altan è morbido e continuo, pacifico anche nel trambusto delle più focose freddure come nel dialogo tra i due Generali: “Il nostro obiettivo è la pace”, “La prenderemo: viva o morta”, risponde il secondo. Ma non è sempre stato così. I primi disegni, quelli del periodo brasiliano, erano nervosi e i personaggi finivano sulla carta come dei mostri appena usciti da un incubo. Ora “sogno molto e non faccio più incubi”, racconta Altan in una bella intervista a Minima&Moralia (2014), dove rievoca gli anni in Brasile alla fine degli anni 60: “mi sentivo a casa forse proprio perché ero lontano da casa”. Alle spalle si lasciava la facoltà di architettura, mai finita, e gli anni bolognesi iniziati dopo il trasferimento da San Vito al Tagliamento in seguito alla separazione dei suoi genitori. Un evento che interruppe “la dialettica da tinello” tra la madre Nora e il padre (noto antropologo) Carlo Tullio, una costante della sua infanzia fino ai nove anni. “Mia madre era dolce e mio padre, severo. Con me giocava poco e aveva idee precise su quel che si dovesse o non si dovesse fare. Poi un giorno facemmo le valigie e partimmo per Bologna. Avevo annusato l’atmosfera, ma nessuno mi disse né mi spiegò niente. All’epoca l’addio tra moglie e marito si gestiva male”. “Fu traumatico?”, è la domanda dell’intervistatore. “Abbastanza”. La risposta come sempre senza enfasi di Altan, settantatreenne all’epoca dell’intervista.
Un trauma che Altan si è curato a modo suo, facendo rivivere la dialettica da tinello dei suoi genitori nella striscia della signora Luisa col suo goffo marito, che ha sempre — invariabilmente — la peggio.
Alle donne Altan riserva la tenerezza ricambiata con la madre, la moglie Mara conosciuta in Brasile, la figlia Francesca per il divertimento della quale quarantadue anni fa nacque la Pimpa, la cagnolina a pois di fama internazionale e che ultimamente ha per compagna Olivia, il personaggio creato per la nipotina. Al giornalista della Stampa che lo intervistava in occasione dell’uscita del volume Donne Nude (Longanesi 2011), una raccolte delle splendide vignette a soggetto unico — le sue donne belle tristi e pensanti —, facendogli notare che “nella politica e dintorni s’aggirano donne che potrebbero convincerla a qualche correzione di rotta”, Altan risponde evangelico che “così si va a rischio di toccare quelle buone. Di fare confusione!”. E all’amico giornalista Paolo Rumiz, che in un dibattito pubblico gli ricorda l’esistenza anche del lato cinico dei bambini, Altan risponde di non esserne interessato. Il segreto dell’ironia altaniana, leggera e friabile come le chiacchere a carnevale, sta tutto in questa altalena quotidiana tra il lavoro per i bambini piccoli e quello per le loro madri e i loro padri, i loro amici: compagni di vita e di lavoro. È la cifra inconfondibile della Altan Terapia (Salani 2010), che permette al cinismo di non essere mai l’ultima parola. Semmai una minaccia a forma di ombrello che urge ad andare oltre.