La trasmissione contemporanea dei due eventi è stata impietosa. Da una parte le celebrazioni per il compleanno brizzolato e smorto dell’Unione europea, dall’altra la visita gioiosa del Papa a Milano. Da una parte il 2 novembre, dall’altra la primavera dei popoli. 

La concomitanza mediatica dei due eventi ha messo in luce due antropologie diverse, due linguaggi distanti, due visioni lontane. E soprattutto la stanca e ripetitiva vecchiezza di quest’idea europea che nel corso degli anni ha sommato ruga a ruga, artrite ad artrite, tanto che persino l'”Inno alla gioia” è apparso anemico in quel contesto. E’ stato come vedere una trasmissione in bianco e nero senza neppure il fascino del vintage.



La prima ruga segna quei sessantenni che oggi reggono le sorti del continente, così vecchi dentro da superare in grigiore persino i loro omologhi monocromatici di sessant’anni fa. Nessuna emozione è scaturita da quei babbioni compassati, nessuna parola significativa, nessuna convinzione personale, nessun lampo nello sguardo. Insomma, quale fascino dovrebbe scaturire da siffatta fede europea? Chi oggi oserebbe mettere in gioco se stesso per un’idea così debole e liquida?



La questione attiene, in primis all’anima dell’Europa. Come sempre accade. Benché l’anima la si voglia espellere dall’orizzonte della vita dell’uomo, essa riemerge sempre, è una sua esigenza naturale e radicata. E quest’Europa che ha perso l’anima, è inutile, non avvolge, non attrae. E’ asessuata, neutra. E si sa che vi è qualcuno che la vuole proprio così. Metafora di una biologia senza più e senza meno, ma centrata su uno zero assoluto in cui risiederebbe – dicono – il cuore della vera democrazia e della piena libertà.

Alla radice vi è una mancanza di sangue e di carne. Così, questa corporeità che Jules Michelet aveva davanti agli occhi mentre a modo suo interpretava la storia di un’Europa salvata dalla Rivoluzione francese, appare priva di parti sode, della sostanza muscolare e della linfa, che non solo danno le forme, ma sostengono l’essere. Carne e sangue che sono un’unità prima ancora che un’unione e che solo il popolo che ha metabolizzato i popoli, può garantire. Dov’è il popolo in quest’Europa di afoni? Chi ha parole significative per esso? Chi ne conosce il travaglio, la sofferenza, il disorientamento?



Quella che ci appare è un’Europa delle distanze, incapace di creare e proporre miti perché incapace di poesia. Sostanzialmente è l’Europa dell’ignoranza e della presunzione, tutta scheletro e giunture arrugginite, che assiste pian piano ad uno “spolpamento”.

Senza mito non si costruisce la città nuova. Lo sa bene Enea che fugge da Troia con il padre Anchise sulle spalle. Ed è proprio questo rapporto carnale tra le generazioni, in cui il sudore reciproco si confonde e diventa uno, l’elemento originario e originante. Ma oggi più nessuno porta con sé nessuno. La solitudine rimbambita in cui ci beiamo, convinti che l’unicità si esaurisca nel nostro riflesso, ha perso persino ogni fascino eroico e tragico. La tenda di Achille è divenuta una canadese che ci illude di avere un cielo sulla testa. E ci basta. Bastare a se stessi non costruisce città, ma un semplice monolocale con cibi monodose ed un distratto onanismo da depressione.

Diciamoci la verità: senza mito, senza poesia, senza carne, quest’Europa annoia.

E allora eccoci sussultare se un premier presenta al nostro povero Presidente Mattarella il proprio marito. Gasp, che colpaccio! Questa è l’Europa, che senza corpo e senza anima, si riduce ad un serraglio di venditori di diritti impossibili, di astrazioni esistenziali, di ideologie spoliticizzate e, dunque, molto più pericolose e assai meno interessanti; hanno ormai ridotto la carne ad un optional, ad un surrogato, ad una macchietta.

Si chiama laicità. Assai più clericale del clericalismo più becero e tanto meno intrigante perché in essa si annulla l’eterno e umanissimo conflitto tra bene e male, tra peccato e redenzione.

In uno spazio esistenziale così non ci si diverte. E il popolo lo ha ben capito. Lo dicono bene le facce stesse dei ventisette protagonisti, così smunte e tristi da far rimpiangere Peppa Pig. Solo la depressione che si leggeva sulla faccia del Sindaco di Roma, che sembrava non capire chi avesse invaso casa sua e perché, ha fatto risaltare il tiepido colorito sulle gote di quegli sconosciuti venuti da Nord e da Est. 

Quanti errori si sono sommati in questi sessant’anni e tutti concentrati negli ultimi dieci. Errori che dicono di una miopia geopolitica, di assenze di strategie, di malfunzionamento delle diplomazie e dei loro servizi informativi, di un’impazienza beota e di un ottimismo sciocco. Dentro tutti e a qualsiasi costo, come innesti innaturali su un corpo che ancora doveva superare l’età della pubertà.

Eccola l’Europa che compie sessant’anni, grigia nel pelo ma adolescente nell’animo, come quei vecchi che vorrebbero sconfiggere la morte accoppiandosi con le ventenni, che si tirano la pelle fino a diventare come i gatti, che credono di poter comprare tutto, anche la felicità, incapaci di custodire la memoria perché l’hanno barattata con un lifting, senza più una narrazione capace di legare e di rifondare il mondo perché affannati ad assimilare il linguaggio social e un’esistenza virtual. Banale: questa è l’Europa che ci viene propinata e che si vede innanzitutto negli occhi lessati di chi la decanta.

Lo zapping è micidiale. Per un intero pomeriggio sembra di saltellare da un mondo ad un altro. A Milano la vita pullula, scoppietta. Qui il vecchio Papa custodisce il segreto del futuro. Ne parlano gli occhi, gli sguardi. Qui un popolo c’è. E quella carne, forse non all’altezza delle cerimonie paludate o dei salotti benpensanti, è viva, abbraccia e si fa abbracciare. Quei ventisette stoccafissi dovrebbero provare, una volta, l’emozione di un abbraccio popolare, la condivisione di una casa operaia, il sapore del minestrone di terza scelta, l’odore dei corpi di chi lavora, suda e ama. Potrebbero davvero rifondare l’Europa e non annegarla in uno sbadiglio.