Un personaggio compare più volte nell’Eneide di Virgilio, mescolandosi alla vita degli uomini. Fama, ultima figlia della dea Terra, è partorita dalla madre adirata contro gli dèi olimpi che ne avevano combattuto e sconfitto gli altri figli: quindi il suo agire è anzitutto una vendetta contro gli dèi, ma si compie solo nello spazio umano. Virgilio la descrive come un mostro prodigioso, che ha in ogni sua parte le caratteristiche del nome, formato dalla radice greco/romana del “dire, comunicare”: celeri piedi, ali veloci, tante piume quanti occhi, bocche, lingue, orecchi. Sempre insonne, di notte vola fra cielo e terra, di giorno spia dall’alto di un tetto o una torre, per poi diffondere voci terribili. Con un crescendo che ricorda la celebre aria “La calunnia è un venticello”, Virgilio ci descrive simbolicamente il diffondersi di queste voci: “(Fama) cresce nel muoversi e acquista forze andando; / inizialmente piccola e timorosa, ben presto s’innalza nell’aria / e sul terreno cammina e ha il capo fino in mezzo alle nubi“. E’ inquietante il fatto che, a differenza dell’aria rossiniana, qui non si tratta necessariamente di calunnie: la difficoltà per chi ascolta è proprio nella mescolanza di facta atque infecta, “cose avvenute e cose non avvenute”: Fama gode comunque nel raccontare, che siano invenzioni maligne o fatti veri, perché gode nel suscitare timore e dolore.



L’incontriamo nelle città dell’Africa, dove reca la notizia dell’amore di Enea e Didone ai re che la donna ha respinto: usa parole calcolate per suscitare collera e gelosia: la predilezione della bella donna per un estraneo, la lussuria, la turpe passione, lo spregio del compito regale. Sono messaggi che contengono una verità, ma raccontati in modo da infiammare e  aggiungere ira su ira; messaggi che passano di bocca in bocca, con un variare di parole, finché la notizia vera diviene rumor, “diceria”. E di nuovo a Cartagine, quando Didone si è colpita a morte, Fama folleggia con la notizia per tutta la città, scuotendola come se crollasse per un’invasione nemica; raggiunge Anna, la sorella che Didone ha ingannato per poter compiere il suicidio,  con una verità che rivela malevola l’inganno.



Nel Lazio dove i Troiani hanno compiuto il loro peregrinare, Fama li ha preceduti, prima ancora che il re Latino rivelasse di persona il responso sulle nozze della figlia con uno straniero. Ma la notizia sparsa per le città italiche è preoccupante e non ha l’autorevolezza del responso: sarà di nuovo Fama a suscitare l’ira delle donne latine, spingendole a seguire la regina invasata, resa folle dalla Furia, e a pretendere il rifiuto delle nozze con l’estraneo.

Ancora Fama si precipita a portare dolore: alle donne i cui figli stanno per andare in guerra, nella terra arcade di Pallanteo; alla vecchia madre di Eurialo, che ha voluto seguirlo per tutto il viaggio e si slancia sulle mura a vedere la testa infissa sulla lancia nemica;  al re degli Arcadi Evandro, cui Fama preannuncia la morte del figlio prima che il triste corteo funebre giunga alle porte.



Così Fama opera nel mondo degli uomini, cogliendone e interpretandone vicende, peccati e sventure, utilizzandone passioni e affetti, parlando per le loro stesse bocche. E’ chiaro che al di là del simbolo Virgilio ha espresso la sua sfiducia nell’uso di quella che tutto il pensiero antico ha considerato la caratteristica umana fondamentale, il tratto distintivo: la parola, che permette di comunicare, di mettere in comune conoscenze ed eventi, creando, come dice Aristotele, la società degli uomini, la famiglia e la città.

Ma dalla stessa radice su cui si forma il nome di Fama proviene un’altra realtà virgiliana, il Fatum. Grammaticalmente è un participio del verbo del “dire”, ambiguo come spesso nei deponenti fra il valore attivo o passivo: “Quello che ha parlato” o “Ciò che è stato detto”: una realtà misteriosa, potente, superiore agli stessi dèi, il cui volere o il cui contenuto è destinato a compiersi. In Virgilio assume un valore particolare, quello di destino buono, finalizzato ad una positività; all’inevitabilità si mescolano la possibilità di interferenze negative che lo rallentino e la responsabilità umana di chi ha il compito di viverne ogni passaggio. Il dramma di Enea, che ha tale compito e deve lottare con le forze avverse e con la sua stessa debolezza, è aiutato e sostenuto da messaggi che prestano voce al Fato, lo esprimono e a poco a poco lo rendono comprensibile: sono gli oracoli, le apparizioni in sogno, le parole profetiche del veggente, i colloqui nel mondo ultraterreno; è in particolare il compito di Giove, l’unico fra gli dèi a garantire l’avvento del destino senza rancori ostili e preferenze interessate.

Il contrasto con l’opera maligna di Fama è evidente nel monito che, pochi versi dopo che essa è apparsa per la prima volta nel poema, Giove invia ad Enea tramite il dio Mercurio. Anche il giovane dio dagli alati calzari d’oro vola come Fama in mezzo fra il cielo e la terra, ma la sua meta è per una positività, anche se le parole che riporta sono brusche, perfino offensive. Enea ha dimenticato il destino per cui deve operare, la storia grande che attende il figlio e la stirpe futura, per vivere un amore che lo ha mutato e che lo vede curare una città non sua in vesti straniere. Il monito è gravoso e doloroso, lascia Enea fuori di sé (amens) come a volte l’intervento di Fama: ma qui il dolore è costruttivo, diviene immediata obbedienza e operatività. E Fama, che di questa obbediente operatività si affretta a dare notizia a Didone, non è definita malvagia dal poeta, ma “empia”, perché in questo caso non agisce solo fra uomini, ma ostacola la volontà divina del Fato.