In questi giorni si è giustamente parlato e scritto molto sull’Europa, in occasione delle celebrazioni dei 60 anni dei Trattati di Roma e della firma raccolta sulla dichiarazione congiunta. Pur essendoci state anche manifestazioni a favore, tante cose non convincono: ci si divide, normalmente, tra lo scetticismo di chi attribuisce all’Europa gran parte del malessere degli Stati del Sud (furbescamente cavalcato dai vari populismi) e la perplessità di chi, pur favorevole, non si rassegna ad una “unione di bilancio”, presente nella testa dei burocrati. Naturalmente, per capire l’importanza umana dell’Europa basta avere avuto la fortuna di trascorrere da studente un anno all’estero (come il sottoscritto, in Germania): non si può assolutamente scordare l’apertura che nasce dall’incontro con l’altro che, al di fuori dal proprio Paese, è proprio “altro” in tutti i sensi.
Si sono affrontati diversi temi ed è emersa certamente una più decisa volontà di procedere verso obiettivi comuni, sia pure a velocità diverse in assenza di un consenso unanime, con una maggiore attenzione allo stato sociale e alle strutture che garantiscono sicurezza e difesa. Ma, al di là di facili e commoventi entusiasmi nel commemorare gli eventi del ’57, l’impressione che ne ho ricavato è quella di una certa parzialità di vedute, quasi sempre ricondotte ad una visione economico-utilitaristica. Non che non sia importante, intendiamoci, ma è sufficiente?
Un possibile punto di partenza, forse il più trascurato, è la stessa tradizione europea: ricchissima, porta in sé la profondità di secoli di cultura, che rendono difficile non trovare un suggerimento al presente, quasi da ogni angolo la si consideri.
Il problema dell’immigrazione, ad esempio, su cui proprio in questi giorni si è spento l’entusiasmo di Roma visto che molti Paesi rifiutano ricollocamenti nei propri confini, è sentito da tutti, più o meno consapevolmente, come la più grande sfida di oggi. Negli ultimi mesi si è parlato di costruire corridoi umanitari, di accogliere i rifugiati “regolari”, distinguendoli da presunti irregolari, di intervenire nei Paesi di origine con politiche di sostegno alle popolazioni locali, fino a soluzioni non troppo decorose, come pagare uno Stato (la Turchia) per fermare i profughi, impedendo loro di percorrere quelle rotte che potrebbero infastidire migliaia di elettori europei in vista delle prossime scadenze.
Pescando appunto nella tradizione, mi è capitato di leggere un breve saggio di Hannah Arendt, Noi profughi (We Refugees), scritto nel gennaio 1943, quando la giovane donna ebrea era da due anni negli Stati Uniti, in fuga dalla persecuzione nazista, avendo lasciato casa, lavoro e amici, cioè tutto. Con l’intelligenza e la sensibilità che l’hanno sempre contraddistinta, la Arendt richiamava agli ebrei in esilio semplicemente quello che erano, la loro intima identità, da non dimenticare nel tentativo di assimilarsi ai loro salvatori: “Con la lingua non abbiamo avuto difficoltà: dopo un solo anno, gli ottimisti sono convinti di parlare l’inglese tanto bene quanto la loro madre lingua e dopo due anni giurano solennemente di parlare l’inglese meglio di ogni altra lingua; il loro tedesco è una lingua che appena ricordano. Per dimenticare meglio evitiamo anzi ogni allusione ai campi di concentramento o di internamento, che abbiamo provato in quasi tutti i Paesi europei, la qual cosa potrebbe essere interpretata come pessimismo o come mancanza di fiducia nella nuova patria. […] L’inferno non è più una credenza religiosa o una fantasia, ma qualcosa di tanto reale quanto le case, le pietre e gli alberi”.
Secondo la nostra filosofa, qualcosa non andava in questo ottimismo conformista. L’incremento del tasso di suicidio degli ebrei, non solo in Europa, ma anche all’estero, lo dimostrava ampiamente: tutti “travestimenti” (Arendt) inutili, per mettere a parte la propria identità, avvertita come un ostacolo all’assimilazione e quindi alla salvezza: “Se cominciassimo a dire la verità — e cioè che non siamo altro che ebrei — ciò significherebbe esporci al destino degli esseri umani i quali, non essendo protetti da alcuna legge o convenzione politica, non sono altro che esseri umani. Mi è difficile immaginare un atteggiamento più pericoloso, perché realmente viviamo in un mondo in cui gli esseri umani in quanto tali hanno cessato di vivere per tanto tempo”.
Naturalmente, le considerazioni fatte dalla Arendt non valgono soltanto per gli ebrei: è il cuore dell’uomo ad essere essenzialmente “migrante” e la condizione spaventosamente tragica in cui tanti vivono ci avvicina semplicemente di più a noi stessi: “I profughi costretti di Paese in Paese rappresentano l’avanguardia dei loro popoli se conservano l’identità. Per la prima volta la storia ebraica non è separata, bensì legata a quella di tutte le altre nazioni. Il rispetto reciproco dei popoli europei è andato in frantumi quando e perché permise che i membri più deboli fossero esclusi e perseguitati”.
E’ solo un esempio, per dire che, a mio parere, si tratta di capovolgere le normali vedute.