La sua casa è sulle cime: San Valentino al Campo (Bolzano) è una terra tutta in salita, spigolosa, quasi ci si arrampica per solleticarle i fianchi. Per sedersi sulla gobba del prato e racimolare parole in quota, d’alta-quota. Anche l’altra casa, infatti, è sulle cime: quella dell’anima. Parole, dunque, da raccogliere nell’habitat a loro più familiare: le altezze e le profondità sembrano offrire all’uomo tutto ciò che il caos di città gli ha sequestrato. Parole in-vita: “Non c’è niente nella mia vita che mi renda tanto felice quanto il ritrovarmi in armonia con un paesaggio così potente” scrive Tamara Lunger, la fortissima atleta altoatesina, nel libro Io, gli ottomila e la felicità (Rizzoli, 2017). 



Lei è la donna del gran-rifiuto o, per dirla con più onestà, la donna che ha saputo arrestarsi ad un passo dal folle sogno: un anno fa, il 26 febbraio 2016, a settanta metri dalla cima del Nanga Parbat ha scelto la resa alla possibile disfatta. Sarebbe stata la prima donna al mondo a scalare il Nanga Parbat — “montagna mangiauomini” — nella stagione invernale. Materia per folli, per gente dannata: “Quel giorno ero troppo sicura di me. Non era il giorno esatto”. La montagna chiede umiltà, rispetto: dalla cima, raggiunta, si potrà solo scendere a valle. Scendere, come salire, è parte dell’avventura di conquista, come per gli antichi generali della storia: si va, si conquista una terra, si torna a casa. Solo chi torna racconta: le cicatrici diventeranno cimeli.



Chi s’arrabatta per andare lassù, quando parte prenota un biglietto di sola andata: “Ogni spedizione porta con sé un insegnamento: la capacità di fare i conti con la morte. Io, Tamara, sono disposta a morire in cambio di tutto quello che ricevo”. Calcolare il non-ritorno è parte integrante della sfida, il rischio della morte è condizione per una vita più piena: “La morte non è più qualcosa che mi ferma — ci confida Tamara —. So che Dio ha un progetto grandissimo su di me. Lo sento, lo percepisco, ma non sono ancora in grado di comprenderlo: per questo ho imparato a fidarmi. Quando, scendendo, sono caduta fino a sfiorare la morte, più che a farmi divorare dalla paura, ricordo di aver usato quegli attimi per ringraziare il Cielo di tutto ciò che avevo ricevuto fino allora”. 



Chi più in alto sale, più in profondità s’inabissa: “Quando uomini e montagne si incontrano, grandi cose accadono” (W. Blake). Si aprono panorami mozzafiato, crepe nelle quali sta in agguato pure Dio: “Io parlo a Lui, Lui a me: quando sono lassù è particolarmente loquace. Credo in Dio con un’allegria sconfinata” ammette con quella candidezza tipica di chi ha percepito sulla pelle l’irruzione dell’allegrezza di Cristo, il tratto che più riserbava agli amici intimi.

Dio, dunque, nel richiamo della bellezza: “La certezza di vedere ancora molta altra bellezza serve a calmarmi”. Il fascino del mistero nascosto nel rischio del vivere, la montagna come una sorta di rivelazione, anche di vocazione. Il rischio della morte come chance di dilatazione dell’anima: “Nella ‘zona della morte’ (circa 8mila metri, dove l’organismo non si rigenera, ndr) ho la fortuna di chiedermi sempre: “Quanto sono disposta a mettermi in gioco ancora?” Morire per imparare a vivere: non si scala per i soldi. Chi sale, accetta di farlo per andarsi a cercare nuova linfa per la vita: il campo-base è solo il punto da cui partire, la vetta è il punto a cui ambire. Dal basso verso l’alto, andata e ritorno.

Mentre parla — con in mano quella sua croce di marmo che porta sempre al collo — Tamara è un fiume di colori, la sua passione è un’invasione di campo, la gaiezza dello sguardo un contropiede potentissimo all’abitudine. Tutto giace qui, nasce e muore: “Ho la grande fortuna di amare la fatica, il dolore. La sfida favorisce sogni sempre più grandi”. 

Eppure la vetta — “quella” del Nanga Parbat — non è stata toccata, l’ha solamente accarezzata con lo sguardo. Che importa? “Penso a tutto quello che ho guadagnato in cambio di un successo”, riflette. Il guadagno più bello: un giorno potrò ritentarla, la vetta rimane lì. La vera conquista, quella che per Tamara vale un’intera spedizione: “Cercare di intuire la volontà di Dio e assecondarla è l’unica soluzione possibile”.

Sono i limiti di Heidi, la bella protagonista del felice romanzo: “Mi sento un po’ come Heidi” dice di sé. Parole condivise: “Io non potrei mai accontentarmi di una stanza senza farfalle! Ho bisogno di prati verdi per respirare. Basta con queste stanze vuote piene di vecchi cimeli! Via, via!” (J. Spyri). 

Settanta metri sono nulla per l’uomo dell’osteria: “Quattro passi, poco più”. Lassù, dove l’aria si concede a caro prezzo, settanta metri sono un’ora e mezza di cammino: “Se sali in cima non torni più a casa — si sentì risuonare Tamara —. Ero a settanta metri, ma da sola”. La solitudine premia, anche ammazza, tentando l’orgoglio. I più dicono: “Ha fallito la vetta”. Chi dell’anima s’intende, non concorda: “Ha vinto la sfida”. La sfida è vinta quando s’impara a riconoscere i propri limiti: farsi piccoli e discreti, è già salvarsi.