La storia dell’Italia criminale è un aspetto, e un pezzo, importante della storia d’Italia nel dopoguerra. Si rischia di capire poco o nulla se non si tiene conto dei modi di combattere i fenomeni delinquenziali, tra i quali vanno compresi quelli di natura giudiziaria, cioè gli strumenti (leggi e istituzioni) creati per contrastarli.
Il biennio 1992-1993 mi pare sia stato il periodo più significativo, direi emblematico, del nostro paese nella lotta per munirsi di normative e strutture adeguate. E’ tempo di tirare un bilancio.
Nei due anni citati ebbero luogo eventi di straordinaria magnitudine. L’Italia uscì dal cosiddetto serpente monetario e dovette fronteggiare un debito ciclopico di centinaia di migliaia di miliardi.
La mafia reagì al maxiprocesso in cui vennero condannati i suoi principali boss facendo strage dei magistrati di prima linea come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con una campagna di devastazione delle città d’arte, delle chiese e dei musei (a Roma, Firenze e Milano) e uno strascico di morti.
Il governo Amato prese provvedimenti di guerra come l’invio dell’esercito in Sicilia, la creazione o valorizzazione di una serie di apparati antimafia.
A Milano i magistrati diretti da Francesco Saverio Borrelli avviarono una vasta campagna di contenimento e punizione della corruzione pubblica e privata (la cosiddetta Tangentopoli). Con l’eccezione del Pci e del Msi finirono sotto inchiesta, vennero arrestati o si suicidarono imprenditori del livello di Raul Gardini e di Gabriele Cagliari, dirigenti dei principali partiti, che si dissolsero. E’ la fine della prima repubblica.
Ma quando, insieme al ministro della Giustizia Giovanni Conso, il premier Amato provò a varare una legge punitiva del finanziamento illecito dei partiti, senza pregiudicare il ricorso dei giudici ai reati di corruzione e concussione, entrambi furono investiti da un’ondata furente di giustizialismo. Il clima era di caccia agli untori. Si volevano tagliare le teste e non punire gli illeciti.
Di tutto questo trambusto vale la pena citare qualche cifra relativa al numero dei cittadini perseguiti per corruzione. Furono assai numerosi: circa 25mila indagati, 5mila arrestati, 2mila condannati e 35 suicidati.
A rimettere le mani su quel periodo, affidandosi ai fatti e ai protagonisti (Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Francesco Cossiga, Bettino Craxi, Gerardo D’Ambrosio, Achille Occhetto, Giorgio Napolitano ecc.) è un avvocato e saggista milanese, Ferdinando Cionti. Di recente ha dato alle stampe un volume difficile da passare sotto silenzio, sin dal titolo: Il patto segreto di Tangentopoli tra Pool e Pds (Libertates libri editore, Milano 2017).
Di Mani pulite si può dire che sia sia trattato forse di una breve parentesi, di un’eccezione, ma la sua ombra lunga si è proiettata sull’intero sistema giudiziario. Purtroppo, dal 1992, la società e lo stato del nostro paese assomigliano sempre più ad una sorta di “repubblica dei giudici”.
Dal fare giustizia applicando le norme penali per i singoli reati, si è venuta progressivamente coltivando una responsabilità impropria. Mi riferisco all’illusione che la moralizzazione pubblica e il rinnovamento politico potessero essere perseguiti per via, e per mano, giudiziaria.
Luciano Violante ha poco tempo fa fatto capire come sia arduo parlare di regime democratico quando a dominare, con timore e tremore, non è la Magna Charta dei diritti dei cittadini. La sovranità quotidiana è data dal ricorso, o dalla minaccia, al Codice penale. A brandirlo con uno spirito eticizzante è una casta (o élite) di giudici che si fa oltremodo forte del fenomeno che è all’origine di tutto: l’estremo indebolimento della politica.
Un noto giurista siciliano, Giovanni Fiandaca, a proposito dei magistrati non solo (ma in particolare) milanesi, ha rilevato un evento assai pericoloso: “una sovraesposizione politica che ha finito con l’assumere la caratteristica aggiuntiva di un paradigmatico populismo giudiziario”. Il che avverrebbe “tutte le volte che in cui il magistrato pretende, anche grazie ad una frequente esibizione mediatica, di assurgere ad autentico rappresentante o interprete dei veri interessi e delle aspettative di giustizia dei cittadini, e ciò in una logica di concorrenza-supplenza e in alcuni casi di di aperta contrapposizione rispetto al potere politico ufficiale”.
Il risultato è stato il dominio dei magistrati-tribuno, dunque. Lo si può rilevare in ciò che è diventato ormai senso comune di massa. Intendo dire che da Tangentopoli in poi l’indagato viene percepito sempre più come un colpevole. E quindi scatta, come un meccanismo ad orologeria, l’immediatezza della custodia cautelare e un procedimento giudiziario che, con una barbarie infinita, si trascina in avanti (quando non indietro!) per qualche decennio.
Tutto nasce da un atto illecito molto semplice che i magistrati milanesi hanno commesso spesso e volentieri, in nome del principio che il fine buono giustifica i mezzi perversi. In breve, hanno trasformato gli abusi d’ufficio (cioè il favore o il danno procurati ad una persona da un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) in corruzione (quando il comportamento prima descritto viene compiuto per compenso in denaro o altra utilità).
Sotto la violenza del carcere inflitto discrezionalmente, la paura delle conseguenze presso la famiglia e i colleghi dell’immagine rovinata, eccetera diventò molto facile essere indotti a confessare ogni tipo di reato, e/o accusare altri della stessa colpa.
Antonio Di Pietro, come documenta Ferdinando Cionti, lo ha ammesso pubblicamente: “nella maggior parte dei casi i fascicoli giudiziari di abusi in atti d’ufficio altro non erano che atti di corruzione non provata. Questa fu la chiave di Mani pulite: il tentativo,in buona parte riuscito, di trasformare in corruzione ciò che in apparenza era un abuso, provando l’interesse alla corruzione” (si veda l’Intervista su Tangentopoli, a cura di Giovanni Valentini, Laterza, 2000).
Il ricorso frequentissimo alla carcerazione preventiva, il timore e tremore inflitto agli imputati, la delegittimazione personale e aziendale che seguiva agli arresti ecc. furono una forma di vera e propria violenza usata dai magistrati.
Uno di essi, il pubblico ministero Gherardo Colombo, con molta onestà ha riconosciuto che “proprio nella sede penale si realizza il monopolio della violenza da parte dello Stato, e che si può fare il magistrato o esasperando questa violenza o cercando di temperarla il più possibile e applicarla a tutti nello stesso modo”. Colombo ha anche ammesso che se questa “violenza istituzionalizzata” le facesse un privato cittadino commetterebbe un reato.
Ebbene, che cosa è la “violenza istituzionalizzata” così spesso usata da pubblici ministeri e giudici?
Il pubblico ministero milanese non si tira indietro, non mente o falsifica. Elenca ai lettori che cosa c’è dietro termini di questo tipo: “mettere in prigione equivale al sequestro di persona; perquisire una casa alla violazione di domicilio; sequestrare un oggetto al furto o alla rapina”. Di queste armi non di rado si sono serviti i magistrati di Milano, operando in questo modo una prevaricazione sul potere esecutivo e asservendo la politica (ma, questa, ripeto, aveva ed ha abdicato al suo ruolo).
Non siamo più in presenza dello Stato di diritto. Nel suo recentissimo saggio Ferdinando Cionti a ragione ribadisce un concetto che aveva elaborato tre anni fa in un altro volume (Il colpo di Stato, Amazon\Libertates), cioè che il pool di Milano, “supportato dalla magistratura nel suo complesso, aveva effettuato un vero e proprio colpo di Stato di tipo bonapartista”.
Gli studiosi sanno perfettamente che cosa significhi, cioè “una presa indiretta del potere sovrano conquistato mediante il sovvertimento dei rapporti con i poteri legislativi ed esecutivi, formalmente non occupati, ma sostanzialmente subordinati al potere assoluto e incontrollato della Magistratura, corporazione comprendente oltre che il potere giurisdizionale anche il potere esecutivo del pubblico ministero”.
Ma questo disfacimento delle regole e delle istituzioni dello Stato liberal-democratico non sarebbe bastato a dare ai giudici l’enorme influenza di cui hanno goduto.
Come vedremo, la messa in ostaggio della politica è potuta avvenire, oltreché per l’estrema debolezza di essa, per il soccorso dato a Borrelli e ai suoi collaboratori dagli ex comunisti. Hanno potuto esercitare sul governo e sullo Stato una penetrazione molecolare e un controllo pari, se non superiore, alla cooptazione nella maggioranza che c’è stata in misura minore.
Con Mani pulite nasce e si consolida la “repubblica giudiziaria”. Ha ben poco a che fare con la democrazia (della tradizione liberal-democratica) e molto più con un’oligarchia.