Dopo una Vita di Gesù (Queriniana, 1977), narrata quasi in forma di appunti, come uno scrittore che trascriva direttamente personaggi, motivi e domande dalle fonti sulle quali sta indagando, Shusaku Endo torna al romanzo nel 1980 con Il samurai (Rusconi, 1983).
Come il suo primo libro, Silenzio, da cui Martin Scorsese ha tratto il film uscito recentemente, anch’esso è ambientato nel XVII secolo e continua a scandagliare, attraverso la ricostruzione di una vicenda storica realmente accaduta, il tema dell’incontro tra il Giappone e il cristianesimo. A separare le due storie, una ventina d’anni soltanto; il tempo necessario affinché l’espulsione dei cristiani, sancita da un editto nel 1614, diventi una persecuzione sistematica e brutale.
Ma il successo del libro, che ricevette anche uno dei più importanti premi letterari giapponesi, è probabilmente da ascrivere alla sua parte più “avventurosa”, nella quale si narra la costruzione e il viaggio del primo galeone giapponese. Su questa grande nave, un’avanguardia di funzionari e mercanti guidata da marinai per lo più spagnoli attraversa due oceani per avviare un accordo commerciale preferenziale con le potenze cattoliche occidentali.
Padre Velasco, un francescano piuttosto spregiudicato e ossessionato dalla “conversione del Giappone“, certo che questa sia la sua vocazione, si offre di aiutare il governo giapponese come interprete e come mediatore per favorire un incontro con il re di Spagna. Egli è sicuro che il viaggio possa convincere le gerarchie cattoliche a non interrompere l’evangelizzazione del Giappone e magari anche ad affidarla a lui, nominandolo vescovo unico del Paese.
In realtà si tratta di un’unica grande finzione. Da parte giapponese, infatti, il solo interesse è quello di scoprire i segreti della navigazione in “mare aperto” e avviare così un proprio commercio diretto scavalcando le compagnie europee. Mentre la spedizione è ancora in corso, però, anche questa motivazione viene abbandonata e tutto il Giappone si avvia a una chiusura quasi completa al mondo esterno. Da parte spagnola, invece, vengono, sì, concesse agli inviati stranieri alcune udienze ufficiali e qualche onorificenza, ma non si crede, in fondo, nell’autorevolezza della spedizione e che da essa possa nascere una nuova tolleranza verso il cristianesimo in Giappone. A questo proposito a nulla varrà il battesimo dei mercanti esibito e spettacolarizzato da padre Velasco (in realtà esito del loro opportunismo commerciale) e il tentativo estremo di rivolgersi a papa Paolo V, spingendo il viaggio fino a Roma.
Protagonista del romanzo, insieme al padre francescano, è Hasekura, il capo degli inviati giapponesi, il samurai alla cui vicenda personale il titolo iniziale del libro (Ho incontrato un re) si riferiva in modo più diretto. “Ho varcato due oceani e sono andato fino in Spagna per conoscere un re. Ma non l’ho conosciuto. Ho conosciuto soltanto quell’uomo inchiodato a una croce“.
Ad accompagnare la storia di entrambi c’è sempre il Giappone, presenza costante che attira i loro sogni e le loro preghiere. Non solo un luogo da cui parte e nel quale si conclude infine la loro vicenda, ma quasi il simbolo del cuore esigente dell’uomo e, così, della profondità che la fede cristiana deve colmare per attirarlo a sé; come in un amore appassionato e profondo al quale ci si doni completamente.
A questo proposito è Endo stesso, da buon romanziere, a spostare l’indagine sull’incontro tra Giappone e cristianesimo da un livello culturale, di relazione tra culture, a un livello invece personale, di incontro tra la singola persona e la figura dell’uomo Gesù Cristo. Questa posizione, che ben rappresenta anche l’autore stesso, nel libro viene esposta da un giapponese, ex frate, che i viaggiatori suoi conterranei incontrano in Nueva España, il Messico di oggi. “Non ho nulla da spartire con i Padri che invocano il nome del Signore, bruciano gli altari degli indios e conducono via a forza gli indigeni dai villaggi con il pretesto di diffondere la parola del Signore. (…) Chi piange cerca qualcuno che pianga con lui. Chi soffre cerca qualcuno che presti ascolto ai suoi lamenti. Il mondo cambierà, ma chi piange e chi soffre cercherà sempre il Signore. È per questo che lui è vissuto“.
Per quanto riguarda invece l’eccezionalità che la storia sembra richiedere e preparare fin dall’inizio, così come in Silenzio non coincide con il momento dell’apostasia, qui non coincide con l’epilogo eroico del romanzo. Essa raggiunge invece l’apice nel momento preciso dell’accettazione incondizionata della propria esistenza terrena da parte dei due protagonisti; una coscienza di sé che infine non riguarda più i risultati raggiunti e neppure le colpe che l’hanno segnata. Essi scoprono che la vocazione che hanno sempre seguito o cercato di servire non è l’una cosa o l’altra che si riesca a fare nella vita, convertire il Giappone o mantenere il proprio onore, accettare una vita normale o scegliere il martirio, ma consiste proprio in quel dialogo drammatico con il Mistero che dura tutta la vita.
Una scoperta che, allo stesso tempo, li porta ad abbracciare la realtà in tutta la sua pienezza. “La realtà è sgradevole come il cadavere sporco e incrostato di fango di padre Vasquez. Nemmeno il Signore evitò questa amara realtà. (…) Ripensandoci ora, credo che il Signore abbia costellato il mio cammino di difficoltà per costringermi a guardare in faccia la realtà. Sembra quasi che la mia vanità, il mio orgoglio, la mia superbia e la mia sete di conquista siano esistite allo scopo di infrangere tutti i miei ideali, di farmi aprire gli occhi sulla realtà del mondo“.
Le colpe e i talenti dell’uomo non sono più gli inciampi al dialogo con Dio, ma la materia stessa e quasi il “campo di gioco” in cui questo si svolge. E la debolezza, ogni “caduta” dell’uomo — che pur non ha alcun valore salvifico in sé (come vorrebbe una certa “mistica del peccato” in voga negli anni di pubblicazione del romanzo) — diventa il luogo affettivo della relazione, pur silenziosa, con Cristo. “In fondo al cuore degli uomini c’è il desiderio di avere qualcuno accanto per tutta la vita, qualcuno che non li tradisca, che non li abbandoni, fosse pure un cane rognoso. Quell’uomo si trasformò in un cane rognoso per amore degli uomini“.
In questo, che è il cuore del romanzo, Endo riprende l’immagine di Cristo che aveva già esposto in Silenzio: un Dio che si propone all’uomo con la faccia che egli può riconoscere o, ancora di più, con le sembianze nelle quali l’uomo rivede se stesso; che siano quelle miserabili di un traditore o invece umili di un servo.
E che esista la possibilità di accettare se stessi riconoscendosi nel volto di un Dio che ti viene incontro — “Ho vissuto… Qualunque cosa accada, ho vissuto” — rappresenta probabilmente l’aspetto che un lettore di oggi, spesso lontano dalla fede come un giapponese del XVII secolo, può trovare ancora contemporaneo e interessante per sé.